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Enrica Leone

Docente e scrittrice 

 Disertori. Gli intellettuali senza intelletto nel dialogo di redazione

Nel ’97 affrontavo la maturità secondo un rito che si tramandava uguale da generazioni. Ansia, condivisione, voglia di sfuggire e insieme desiderio di affrontare quella prova che ci avrebbe proiettato nel mondo adulto. Quell’anno la traccia di attualità partiva da un pensiero di Norberto Bobbio che recitava così: “La cultura ha il compito di far valere di fronte alla forza le esigenze della vita morale. Contro il politico che obbedisce alla ragion di Stato, l’uomo di cultura è il devoto interprete della coscienza morale. Queste antitesi appaiono continuamente, or l’una or l’altra, nel dissidio tra i diritti della cultura e quelli della politica e colorano in varia misura il dissenso tra intellettuali e politici”. Si chiedeva a noi maturandi di fare riflessioni in merito a quello che appariva un conflitto connaturato nell’essere società. Da un lato i politici e la realpolitik, dall’altro gli uomini e le donne di cultura che dovevano costituire l’ossatura critica e dialettica necessaria per la crescita morale dello Stato stesso. Non ricordo quasi nulla di quello che scrissi sulle pagine che mi valsero la maturità, ma la visione del mondo e della società espressa da Bobbio mi è rimasta dentro, come un punto di vista da cui guardare e soprattutto un modo di guardare. Se è vero che politica e cultura svolgono funzioni diverse e forse antitetiche in alcuni casi, è pur vero che la seconda è necessaria affinché la prima non si trasformi in potere assoluto e antidemocratico. Quale avrebbe dovuto essere il ruolo dell’intellettuale lo aveva ben descritto Gramsci, quando diceva che non una supposta superiorità intellettiva, bensì la capacità di produrre e condividere conoscenza distingueva e identificava l’intellettuale. Pasolini seppe così bene calarsi nel ruolo e assumersi la responsabilità di critica al potere politico, che pagò con la vita il suo desiderio di giustizia sociale, la sua devozione per la verità. Ed è nella lucida analisi pasoliniana della società di massa, che avrebbe cancellato ogni afflato di autenticità, barattato ogni desiderio di conoscenza con l’accumulo seriale di oggetti inutili, che si rintracciano le cause della resa contemporanea. Di quel conflitto così strutturato di cui parlava Bobbio a una giovane donna degli anni novanta, non v’è più traccia. Nell’attuale sistema comunicativo non c’è giornale o emittente televisiva che non serva questo o quell’altro partito, declinando di fatto la missione prima del giornalismo che è pur sempre un’indagine onesta sul reale. Dove sono gli intellettuali oggi? Chi si assume quella responsabilità di gramsciana memoria? Chi mette in crisi un potere politico di una bassezza che rasenta la melma, quando non ci sguazza? Chi cerca ancora, se non la verità, quanto meno di smascherare le ipocrisie? Non so… magari isolata si leva qualche voce, ma la cultura non fa più paura. A partire dagli anni ’80 ci siamo disaffezionati al conflitto costruttivo, preferendo ad esso lo scontro urlato e sguaiato. E mentre le donne e gli uomini di cultura arretravano arroccandosi in comode stanze lontane dal mondo e dalle sue esigenze, la politica più becera affermava il suo potere, si infiltrava nella società alimentando gli istinti più bassi. L’attuale crisi ha messo in evidenza ferite sociale e morali che non si curano con decreti, ma impegnandoci tutti in una seria ricostruzione civile e questa ricostruzione non può prescindere dalla cultura. Qualche tempo fa un ministro, con triste fare da piacione, disse che con la cultura non si mangia, tuttavia senza si crepa! E allora, proprio come se fossi ancora quella giovane di belle speranze alle prese con la maturità, vorrei provare a immaginare un mondo che vada oltre l’acuta analisi di Bobbio, un mondo in cui cultura e politica lavorino al servizio della società, per l’autentica condivisione di quegli ideali per cui vale ancora la pena vivere.   

Paolo De Martino

Attivista

Tra le diverse attività che svolgo per Resistenza Civile controllo le email. E prima di andare a letto lo faccio sempre per organizzare il lavoro per il giorno seguente.

Ecco, che ti appare un pezzo di Enrica.

L’ho letto tutto di un fiato. Condivido tutto compreso la nostalgia che traspare dalle righe. Condivido i suoi dubbi, le sue amarezze per la rivoluzione gentile che non è mai avvenuta.

Enrica affronta le questioni sociali e politiche partendo dalla letteratura, dai saggi come quello di Norberto Bobbio, io sono più storicista, cerco sempre di capire come ci si arriva ad esempio a preferire lo scontro urlato e sguaiato di cui lei parla. In parte Enrica ne da la risposta: gli uomini di cultura sono scomparsi. Aggiungo che chi gli intellettuali hanno smesso di essere dei Zóon politikón - animali sociali come li definiva Aristotele, si sono allontanati dal chiasso mediatico. E chi si occupa di sapere e di formazione lo fa troppo spesso in maniera intimista, con un potere sempre più ristretto e al tempo stesso pervasivo. Bisogna staccarsi dall’idea dell’intellettuale novecentesco: il tradimento dei clerici è avvenuto e Sartre non è sopravvissuto al 68 .

Tra l’altro, nel nostro tempo quella degli intellettuali rappresenta una classe molto più estesa e dai confini indefiniti. 

Di sicuro, intellettuali sono i docenti, spesso anche loro privi dei loro diritti, che ogni giorno cercano di lasciare un’impronta ai ragazzi, di fornire loro gli strumenti per un’analisi critica. I giornalisti liberi, spesso precari, che provano a fornire all’opinione pubblica in punta di vista diverso. Intellettuali sono gli operatori sociali che lavorano con gli esclusi.               

Gli intellettuali sono quelli che diventano tanti altri mestieri perché il sistema casta li ha esclusi.


“Uno non può restare tutta la vita a fare l'intellettuale con le pezze al culo quando c'è gente che guadagna i miliardi” – diceva Nino Manfredi nel film Il Padre di Famiglia di Nanni Loy.


Condivido con Enrica, il bisogno storico di riflettere sul rapporto fra sapere e politica, che è tutt’una con quella sulla qualità della politica, è un modo di reagire alle varie forme di decadenza che vive il nostro tempo. Ma pare evidente che la rivoluzione guidata da uomini illuminati è un’idea che non trova consenso. Invece credo che sia diventata predominante la logica (perversa) del capitalismo per cui l’affermazione, la gratificazione e il peso sociale siano fermamente saldati al profitto, è ormai evidente che più si guadagna più si diventa “voci autorevoli e moderni profeti del deserto del nulla”. Vedi alla voce Fedez. Le sue parole hanno fatto più rumore di un qualsiasi uomo di cultura. E se diamo per buono questo, significa che ripensare il rapporto fra sapere e politica non può riportare a dibattiti antichi e superati, discutere sulla figura dell’intellettuale dei giorni nostri,  si tratta di una questione poco feconda anche perché nei casi migliori oggi chi si dedica sul serio alla conoscenza la considera opposta alla politica, quindi un’occupazione privata, o fra pari, il cui beneficio è soltanto individuale o per pochi.

Quindi, a mio avviso la qualità della politica può trovare casa soltanto da un’azione intellettuale che venga dall’esperienza, non da astratte teorie. E per esperienza mi riferisco alla conoscenza diretta della realtà, più precisamente di quella parte della realtà in cui si vive senza diritti, e dove le azioni condivise possono avere ricadute misurabili e concrete. E l’intellettuale può e deve essere protagonista di una nuova stagione: smetta di dirci dove andare che si sforzi di mettere in connessione ciò che già c'è, rimetta in condivisione le sapienze.                     

“Gli intellettuali, che diventino uomini e donne ponte”.


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