Layout del blog

Giovanna Gagliardi 

Scrittrice e cooperante

E' iniziato il processo che fa luce sugli abusi del regime siriano. 

23 aprile 2020, alta corte di Coblenza, Germania centrale. Rimbalzano sulle maggiori testate internazionali le immagini di un uomo a capo chino e volto coperto. Con le mani si tira giù il lembo del cappuccio, calato fin sul naso. È Eyad al-Gharib, ex colonnello dei servizi segreti siriani, accusato di tortura e complicità in 30 omicidi. Con lui alla sbarra Anwar Raslan, ex alto ufficiale della sicurezza militare, responsabile per le torture inferte, tra l’aprile 2011 e il settembre 2012, a 4000 reclusi, sprofondati nei sotterranei del carcere di al-Khatib, nella centrale via Baghdad di Damasco. Tra gli altri capi d’accusa stupro, aggressione sessuale aggravata e omicidio di 58 persone. Per la prima volta nella storia, degli alti funzionari del regime siriano sono imputati in un procedimento per i crimini contro l’umanità.

A una settimana dall’inizio dell’udienza, il 30 aprile, la televisione di stato siriana trasmette una fiction del Ramadan, secondo una tradizione invalsa nei paesi arabi durante questo mese di digiuno e unione comunitaria. In una scena del poliziesco, in onda all’ora di cena, appare la foto di un cadavere vero, il corpo senza vita di una giovane attivista, Rehab Allawi, incarcerata nel 2013 e morta all’interno di Kafr Sousa, uno dei mattatoi della sicurezza militare di Damasco. Il suo viso cereo piomba nelle case dei siriani, profanato senza remore da un regime che le aveva già portato via la vita. Stride l’immagine del volto del carnefice protetto dal cappuccio, con quello della vittima, esposto agli sguardi di milioni di cittadini. Un terribile spettacolo, violento e intimidatorio, contro il quale nessuno può nulla.

Dallo scoppio della primavera araba in Siria, nel 2011, centinaia di migliaia di attivisti sono spariti nelle carceri, hanno subito torture e tanti sono stati uccisi, in nome di un presidente, Bashar al-Assad, responsabile di aver trascinato il suo Paese nel baratro di una guerra civile lunga 9 anni e di cui ancora non si scorge la fine.

Il processo di Coblenza è uno spiraglio in questo scenario di desolante impunità, rappresentando un capitolo fondamentale nel cammino per l’implementazione dei diritti umani e la condanna di chi li ha conculcati. L’imputato Al-Gharib era incaricato di individuare e arrestare chi si univa alle proteste nelle piazze siriane, che chiedevano a gran voce la caduta del regime. Conduceva i manifestanti nella prigione di al-Khatib, l’unità 251 dei servizi militari, dove Raslan era preposto all’unità delle investigazioni e aveva il pieno controllo su ciò accadeva all’interno del penitenziario. I racconti di chi è uscito vivo dall’abisso di quella sezione, o da altri hub di quell’arcipelago del male che è il sistema carcerario dello Stato siriano, hanno il sapore del sangue, del ferro di bastoni sulla carne, fino all’elettroshock usato durante gli interrogatori. Tra le pratiche più cruente il “dulab”, parola araba che significa pneumatico, ed è all’interno di una ruota d’auto che si costringe il corpo della vittima, sospesa in aria e percossa. Le celle sono sovraffollate, il cibo scarso e in alcuni casi ai reclusi è proibito fare la doccia e persino soccorrere i compagni di prigionia che hanno subito pestaggi da parte delle guardie. “Immaginate di essere serrati in una stanza così piena che la testa del vostro vicino vi preme sulla spalla e di rendervi conto, a fine giornata, che quella testa che vi pesa addosso, ciondola, non ha più vita”, racconta una testimonianza raccolta dalla ong European Center for constitutional and human rights (ECCHR).

Mazen Darwish, attivista per i diritti umani e giornalista siriano, e Anwar al-Bunni, avvocato fin dai primordi della sua carriera al fianco degli oppositori perseguitati dal regime, sono figure chiave nella messa a punto dei capi d’accusa. Entrambi hanno conosciuto la prigionia per le loro attività di denuncia e sostegno ai diritti civili in Siria. Una volta liberi, sono fuggiti alla volta dell’Europa e hanno ricevuto asilo in Germania. Al pari dei due imputati oggi alla sbarra, giunti in Germania dopo aver disertato, qui residenti come titolari di protezione internazionale. Raslan aveva addirittura ricevuto delega a rappresentare l’opposizione ai negoziati di pace indetti dalle Nazioni Unite per porre fine al conflitto siriano. È stato proprio al-Bunni a riconoscere l’ex membro dell’intelligence e suo aguzzino all’interno di un campo profughi tedesco. Grazie al suo lavoro e all’azione congiunta di vari attori internazionali, tra cui la ong ECCHR e l’unità speciale per i crimini di guerra - una task force tedesca che si occupa di indagare violazioni dei diritti umani in scenari di conflitto - è stato possibile raccogliere numerose evidenze a carico dei due imputati. Il fascicolo è oggi nelle mani dei giudici di Coblenza.

L’azione penale ha potuto avere luogo in virtù del principio di “giurisdizione universale”, che riconosce la perseguibilità dei crimini contro l’umanità a prescindere da criteri di territorialità e alla nazionalità dell’accusato. Il processo, che si prevede durerà per i prossimi due anni, costituisce un importante precedente per l’esercizio di azioni analoghe nel prossimo futuro. È la speranza per decine di migliaia di siriani di vedere riconosciute le violazioni subite in prima persona o da parte dei propri cari, il tentativo di fare giustizia per riscattare la memoria “di menti tra le più brillanti del Paese, che sognavano una Siria senza la corruzione e la violenza del regime”. Anche Rehab Allawi era una di loro, lavorava in un comitato di coordinamento locale di attivisti a Damasco, in cui si occupava di fornire assistenza agli sfollati interni fuggiti da Homs, provincia colpitissima dall’offensiva delle forze governative. L’apparizione televisiva del suo cadavere ha suscitato ondate di indignazione sui social e la sua famiglia l’avrà incassata come un’ulteriore dolorosa pugnalata. In un momento di fragilità da parte del regime, reso vulnerabile dalle conseguenze della pandemia da covid19, oltre che da una spaccatura interna all’entourage del presidente, la sua immagine pubblica continua a essere di refrattarietà assoluta a ogni forma di condanna e completa assenza d’inclinazione morale, una sorta di diritto inestinguibile a violare l’intimità dei vivi e il ricordo dei morti.

Autore: La redazione 27 lug, 2023
Politiche per il cambiamento climatico significa città sostenibili. Quelle italiane sono pronte?
Autore: Andrea Maestri 08 mar, 2023
Lettera alla donne di Cutro
Autore: Irina Di Ruocco 07 mar, 2023
Tra Super-bonus e Super-opportunità
Autore: Giancarlo Marino 04 mar, 2023
La copertina è tratta da Palestina. Una nazione occupata opera di Joe Sacco fumettista e giornalista. 
Autore: Paolo De Martino 27 feb, 2023
La vera sfida inizia adesso
Autore: La redazione 25 feb, 2023
Il sostegno a una confederazione israelo-palestinese sta guadagnando terreno
Show More
Share by: