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Alessandra Pepino

Commerciante

Il lavoro al tempo del Covid: noi, commercianti sbattuti dietro la lavagna.

È venerdì 13 novembre, sono da poco passate le quattro di un pomeriggio ancora tiepido quando sul cellulare mi appare la notizia che aspettiamo nostro malgrado da giorni. Ci hanno fatto zona rossa, annuncio a mio marito che sta parcheggiando la macchina a pochi metri dal negozio, la nostra seconda casa, fatta di vetrine e scaffali, dove da decenni ormai esponiamo scarpe, accessori e il sorriso. Lui non dice niente, fa su e giù con la testa senza guardarmi, un gesto che sa di resa. Ci siamo già passati per questa strada, soltanto qualche mese fa.
Il giorno dopo è sabato, che nella vita di prima avrebbe significato il culmine di una settimana fatta di sacrifici, soddisfazioni e poca paura: quasi a sorpresa, lavoriamo tanto e bene, come non succedeva da almeno un mese. L'annuncio del giorno prima ha smosso le acque, rimescolato il fondale: c'è un'elettricità palpabile nell'aria, un presagio che affonda il tallone sul collo della città. La gente si è riversata per le strade, chi può cerca di arraffare una manciata di libertà in più prima di una nuova clausura. Vendiamo pantofole come fossero panini: ci si sta preparando a trascorrere una nuova parentesi a ciabattare sul parquet di casa, chiedendosi se e quando sarà lecito sperare in qualcosa di diverso, che assomigli almeno lontanamente alla copia carbone della vita di prima.
Quando a fine giornata abbassiamo la saracinesca, cerchiamo di farci forza a vicenda: in fondo lo sapevamo, e una parte di noi – quella che finge di dimenticare che viviamo di pane e commercio – quasi lo auspicava: l'epidemia ha preso a correre nella nostra regione, stavolta sul serio; conoscenti e parenti cadono come mosche sotto i colpi del virus, il cerchio ci si stringe attorno ogni giorno che passa e il solo fatto di essere ancora qui, illesi, ci pare quasi un miracolo. Per la prima volta da tempo non c'è mascherina o distanza che possano neutralizzare la paura di portare il nemico a casa, nel letto, o tra la caffettiera e le tazze della prima colazione.
Noi che abitiamo e lavoriamo in zona ospedaliera, lo vediamo con i nostri occhi che non sono invenzioni quelle che passano per i telegiornali a qualsiasi ora del giorno: ci sono davvero i millepiedi di macchine in coda fuori dagli ospedali, crocchi di persone sulle scale dei pronto soccorso, le sirene delle ambulanze che crepano il silenzio della notte. Senza contare gli occhi di amici in camice azzurro all'interno delle terapie intensive, mani di persone a noi care che addormentano chi non respira, e ci raccontano l'orrore, la stanchezza, ma soprattutto il buio delle previsioni future. 
Se occorre un lockdown per invertire la tendenza di questa curva di morte – non facciamo che ripeterlo tra di noi ma anche confrontandoci con gli altri – allora ben venga. Noi stringeremo i denti ancora una volta.
Quello che non possiamo immaginare – perché in tutta onestà non ci siamo soffermati più di tanto sulle regole di questa zona rossa regionale fin quando non ci ha inglobati – è che il lunedì successivo, nel nostro quartiere, inaugura una settimana come tutte le altre: la consueta schizofrenia del traffico, il via vai della gente lungo i marciapiedi, la stragrande maggioranza delle saracinesche vicine regolarmente alzate. 
Anche noi ci siamo svegliati alla solita ora, e come ogni giorno della nostra vita, abbiamo raggiunto il negozio. È passato troppo poco tempo perché il déjà vu non torni a tirarci per i capelli per riportarci al centro di un incubo speculare a quello di otto mesi fa: la porta chiusa, le luci smorzate, a spiare dalle vetrine la città che stavolta non piega la testa, ma procede ostinata. Perché il governo ci ha detto che in negozio possiamo starci, l'importante è non far entrare i clienti. Un po' come dire ai proprietari di un ristorante che è possibile far accomodare la gente a tavola, senza però farla mangiare.
E così ce ne stiamo dietro al bancone, a far passare la mattinata, in attesa che il telefono squilli, magari per una consegna a domicilio che di certo non può fare cassa, ma in compenso sa illudere il morale. A metà giornata prendiamo un caffè in monouso al bar accanto, tanto per non farci mancare le piccole rassicuranti abitudini di tutti i giorni; rispondiamo a qualche email, riprogrammiamo il lavoro per la stagione che verrà, una chimera opaca in un cielo tappezzato di incertezza. 
Ogni tanto qualcuno sbatte le nocche sul vetro, a gesti ci chiede di entrare; non possiamo che aprire uno spicchio di porta, chiedere scusa: non ci è possibile soddisfare nessuna richiesta. La maggior parte di loro ci guarda con occhi liquidi e disorientati, non lo capisce perché l'ottico, il fioraio, lo studio fotografico o il negozio che vende biancheria intima possano stare aperti e noi, che mettiamo le scarpe ai piedi delle persone, siamo stati sbattuti dietro la lavagna; perché in un supermercato si possa continuare ad accalcarsi a decine, senza alcuna precauzione, se non una svogliata misurazione della temperatura all'entrata, mentre da noi non si possa transitare, neppure contingentati. 
Non lo capisce, né noi siamo capaci di spiegarglielo. 
Perché per farlo dovremmo raccontargli di una classe politica confusa e in affanno, e della lotta intestina che la funesta dal giorno zero di questo incubo; della totale incapacità di assumersi una responsabilità netta, che comporti sì una chiusura dolorosa e necessaria, ma anche la capacità di affiancarsi al suo popolo nella difficoltà. Una classe politica che ha finito per creare un solco sempre più profondo tra le categorie, una sperequazione incomprensibile e grossolana, che le ha rese loro malgrado nemiche su un campo di battaglia già logoro. Dovremmo raccontargli delle difficoltà di arrivare a far quadrare i conti, anche quando la cassa è irrimediabilmente all'asciutto, e le scadenze si presentano ugualmente alla porta. 
E allora lasciamo perdere, ci limitiamo a sorridere un po' in imbarazzo, a consegnare biglietti da visita come caramelle: per qualsiasi necessità chiamateci pure, noi siamo qui, seppure azzoppati, a vostra completa disposizione. Promettiamo di riaprire al più presto, anche se non sappiamo per quanto ancora ci tratterranno in questo limbo; che Natale sarà quello che ci aspetta al varco, e quanti colpi ancora dovrà parare la nostra città per non flettere il capo sotto il peso del nemico: una malattia arrivata da lontano, che ci sta infiacchendo giorno dopo giorno, stremandoci nell'animo prima ancora che nel fisico. 
Comunque vada, a prescindere dalla risposta corporea del singolo individuo, il Covid19 sta già portando a casa la sua vittoria a tavolino. E mentre i notiziari diramano i numeri, e i virologi da salotto televisivo snocciolano previsioni a medio e lungo termine, mentre la città e il paese tutto si infradiciano nelle fondamenta scoprendo il nervo di una sanità pubblica disastrata, noi siamo qui, a tentare ancora una volta di tenerci a galla, facendo della prudenza il nostro vangelo. 
E chiedendo soltanto di poter lavorare.
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