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Paolo De Martino

Le nostre piccole armi. Cronaca di mio figlio lontano

Eccomi. Sono di nuovo in Lussemburgo. 
Separarmi da mia moglie e da mio figlio è stata l’ennesima mazzata emotiva di questo periodo in cui a pianti ed abbracci si alternano speranze e sorrisi. Ogni volta che ci lasciamo diventa sempre più difficile anche perché Igor ha appena compiuto 4 anni e inizia a porsi e a pormi domande. L’altra sera, mentre facevamo un videomessaggio alla nonna di Napoli, mi ha chiesto: “Papà perché non torniamo in Italia?” 
Mi ha spiazzato. Mi sono preso una pausa. Ho aspettato che tornasse a giocare. Ho pensato a quanto è difficile decidere per il futuro dei figli. 
Ma cosa avrei dovuto dirgli? Cosa potevo mai dire a mio figlio che ha 4 anni? 
Avrei dovuto dirgli che il nostro paese è quello in cui non è riuscito a fare un anno di fila di nido perché i posti sono così pochi che entrarci è una lotteria e che, se non si vince quella lotteria, sua madre e suo padre non potevano emancipersi lavorativamente? 
Avrei dovuto dirgli che a sua mamma, laureata e che parla 4 lingue, a Napoli hanno offerto un impiego di 500 euro per un lavoro fulltime? 
Avrei voluto dirgli che il suo papà, una volta, hanno rubato il motorino e che, un’altra volta, ha perso tutti i suoi risparmi nel suo Bar Naku (una delle cose più belle che ero riuscito a realizzare) perché i vigili venivano tutte le sere a fare le multe con il cronometro in mano. Ma, in entrambe le occasioni, non c’è stata nessuna colletta sui social e neppure è apparso l’imprenditore di buon cuore che dichiara ai giornali che ti assumerà? 
Devi avere anche culo gli avrei voluto dire perché l’Italia è quel paese che, se non hai santi in paradiso, ricominciare da solo vale un premio Nobel. 
Gli avrei dovuto dire, in verità, che, come il suo papà, ci sono tanti che perdono il lavoro ma che il suo papà non vuole vivere di sussidi.
Il suo papà vuole opportunità ed è disponibile ad allontanarsi per ricominciare. 
Gli avrei voluto dire che il suo papà era stanco di sentire dire di sua moglie, “non lo trovano gli italiani il lavoro, figurati lei che è straniera”. 
Gli avrei voluto dire che la riconoscenza non è di questo mondo e che, un giorno, mi sarei vendicato di tutti i silenzi che ho ricevuto come risposta. Ma avrei aggiunto immediatamente che il suo papà non crede ai regolamenti di conti seppur pacifici.
Volevo giurargli che un giorno torneremo a “casa mia”, andremo a Procida, cammineremo nel centro storico ma i giuramenti sono la porta delle menzogne. 
Però, ad Igor non ho detto niente di tutto ciò. 
Ho trattenuto rabbia e lacrime. Gli ho detto: “Tu sei un bimbo fortunato perché hai amici e parenti in tre posti diversi: a Napoli, a Belgrado e in Lussemburgo. Ora è il tempo dei nonni materni, divertiti”. 
Ho aggiunto che può chiamarmi in qualsiasi momento e io gli risponderò. 
Sempre. 
Lui non ha risposto nulla. Mi ha abbracciato e gli ho sentito dire: “Ti amo, papà”.
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