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Domenico Carrara

Scrittore

Per una dimensione meno narcisista della letteratura.

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, 
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti, 
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

(Eugenio Montale, da Ossi di seppia)

Questa riflessione vuole essere una proposta alternativa alla visione dell'affermazione nel mondo della letteratura, sempre più saturo di autori e di visioni contrastanti: cercare il successo per le proprie opere va bene, ma fino a che punto ci possiamo spendere? Quanti messaggi validi spesso si perdono nella promozione forsennata di quello che diventa un prodotto fra tanti? L'offerta smisurata non ha già diminuito la potenza comunicativa di ogni arte? Forse la risposta all'imperante io, che scalcia e finisce per mortificare prima di tutto chi in continuazione lo pronuncia, è stabilire delle interazioni che portino a delle relazioni più genuine. I lettori sono pochi, chi ne ha sembra volerne acquistare ancora di più, non s'accontenta, va alla ricerca di ulteriori conferme; eppure a volte un passo indietro, soprattutto nei casi in cui i messaggi predominanti riguardano la lentezza e l'accoglienza o la valorizzazione della diversità, sarebbe opportuno. L'idea del successo mi pare avveleni ogni intento, non sono certo il primo a denunciarlo. Penso, per esempio, a narrazioni cinematografiche relativamente recenti come Little miss Sunshine o Birdman, che prendono di mira quella che è la visione di sogno contemporaneo, l'affermazione della propria personalità o l'ancor più vuoto culto dell'estetica. Uno dei protagonisti del primo film citato recita il monologo che ben riassume l'opera: "Conosci Marcel Proust? Scrittore francese, perdente assoluto: mai fatto un lavoro vero, amori non corrisposti, gay; passa vent'anni a scrivere un libro che quasi nessuno legge, ma è forse il più grande scrittore dopo Shakespeare. Comunque, arrivato alla fine della sua vita, si guarda indietro e conclude che tutti gli anni in cui ha sofferto erano gli anni migliori della sua vita, perché lo hanno reso ciò che era. Gli anni in cui è stato felice, tutti sprecati: non gli hanno insegnato niente". La categoria di perdente con cui si designa l'autore francese è di certo riduttiva ma serve a rendere l'idea di quelle che sono le istanze fondamentali nel mondo consumista, perennemente competitivo e pronto a etichettare chiunque, soprattutto i marginali. Nel contempo si traccia la fine di una realizzazione condivisa, si arriva a una presa di coscienza: non tutti possiamo riuscire allo stesso modo perché ognuno ha dei tempi oltre che diversa fortuna ed è per questo che spiace vedere come certe lotte diventino solo personalismi, che anche il messaggio più puro se non venduto bene risulti in sostanza vuoto (mentre, al contrario, se venduto bene spesso perde di valore). I social amplificano ogni cosa, quella che Guy Debord definiva la società dello spettacolo in relazione alla televisione è realizzata in pieno dall'impero del like. Anche la politica e l'informazione vanno imbastardendosi sempre più per seguire la ricerca spasmodica del consenso, del sensazionalismo a qualunque costo: la scrittura non dovrebbe fare altro? Un autore ha forse il dovere di essere un influencer, di essere fotogenico, di scrivere post o articoli su qualsiasi argomento e di augurarsi tante condivisioni? E se rifiutassimo questo sistema di cose? Ci si pesta i piedi in continuazione per quella che è una lotta quasi ridicola visto che l'oggetto della contesa, l'utenza della letteratura, è qualcosa di sempre più esiguo. I dibattiti sono sacrosanti, come pure le visioni differenti, ma altro è lottare ognuno solo per sé stesso in una microcella virtuale e da lì sparare a zero sulla concorrenza, sull'attualità, sul mondo. Parlare di autoreferenzialità è usare un eufemismo in questo caso; da anni osservo il fenomeno e non mi sembra meno assurdo col passare del tempo, anzi. Viviamo davvero nella società liquida descritta da Bauman, fare corpo diviene episodico (in realtà mi pare che qualcuno tenti, ma senza grande successo perché poi gli egoismi tornano a farsi sentire - e comunque si tratta quasi sempre di squadre, ognuno difende in maniera esclusiva la propria). Accettare lo stato delle cose, per come la vedo, significa riconoscere che la natura umana non sia meglio di questo, che siamo in un certo senso condannati a non comprenderci e contrastarci quindi viviamo nella realtà a noi più congeniale. Si guarda con sospetto chi ha riscontro perché si ritiene poco meritevole, perché noi sapremmo fare senza dubbio meglio se solo ne avessimo l'occasione; d'altro canto chi ha superato delle barriere e ha raggiunto buoni numeri diventa sovraesposto, non può far altro che passare il resto del proprio tempo a cercare di confermare il successo o a superarsi volta per volta: deve stupire, essere efficiente, mai deludere. Eppure la scrittura è prima di tutto interiorità, anche nel caso della letteratura più leggera, e una volta diventata puro mostrare - continuo, inoltre - smarrisce il senso della profondità e diventa un prodotto di consumo anche peggiore di altri (una serie ben scritta a quel punto non è più piacevole?). Vedo nel creare connessioni concrete, nel parlarsi in maniera schietta, nella diffusione di quel che davvero riteniamo valido senza opportunismi di sorta, una via d'uscita; potrà sembrare utopico allo stato attuale eppure nel retrocedere - l'opposto dell'incedere a spalle larghe del politicante che non si scusa mai, dell'uomo arrivato, della donna in carriera - e nella calma forse si può trovare una dimensione meno narcisista per la scrittura. Rifiutare la produttività a ogni costo, l'idea di efficienza anche in quanto dovrebbe essere spontaneo, le scadenze e il metter bocca per puro presenzialismo: tutto quanto riduce insomma il linguaggio intero a una funzione fàtica, un semplice dire di esserci (non lo sperimentalismo del gioco coi significanti pure a scapito del significato, sacrosanto, ma un puro gesto esteriore - anzi, qualcosa di peggiore, lo spacciare per profondità qualcosa che altro non è se non posa). Non abbiamo bisogno di santoni, di guide, meglio un onesto "non so" che un guru imbellettato pronto a inscatolare il nulla o la propria merda d'artista e inviare tutto premendo su uno schermo. Che la scrittura sia gioco, che susciti dubbi, che faccia divertire, ma che non si proponga come guida in un mondo corrotto, come prescrizione o faro, finendo quasi sempre per deludere. E forse sarebbe opportuno leggere gli altri invece di pretendere soltanto d'essere letti, senza però costruire piccole corporazioni di convenienza - quelle denunciate da Antonio Moresco in Lettere a nessuno. Lo ripeto: fare rete e non scavalcare, ecco cosa troverei innovativo più dei tentativi di attirare l'attenzione, più della ricerca dell'inaudito, più del proporsi come risolutori invece che proporre domande. Perché in fondo forse è meglio rimanere artigiani del poco piuttosto che tuttologi con la pretesa di inglobare e raccontare anche quanto non ci appartiene affatto, onnipresenti e fintamente onniscienti; tutto quanto per un apprezzamento che diventa sempre meno tangibile e più virtuale. Chiudo citando alcuni versi di Andrea Zanzotto tratti dalla raccolta IX Ecloghe:
[...]
Non saremo potenti, non lodati,
accosteremo i capelli e le fronti 
a vivere
foglie, nuvole, nevi.
Altri vedrà e conoscerà: la forza
d'altri cieli, di pingui
reintegratrici
atmosfere, d'ebbri paradossi, 
altri moverà storia
e sorte. [...]

(da La vita silenziosa)


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