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Maria Marchese

Rosa di fuoco: Barcellona tra guerra al covid e “guerra a los pobres”.

La Rosa de Foc: così viene chiamata Barcellona dal 1909. In quell’anno, la città fu messa a ferro e fuoco dalle rivolte per una chiamata alle armi che solo i rampolli di buona famiglia potevano evitare, pagando cifre insostenibili per la classe operaia. Più di cento anni dopo, in questo autunno 2020 segnato dalla seconda ondata di covid, le manifestazioni barcellonesi di lunedì 26 ottobre, venerdì 30 e sabato 31 sono state accomunate almeno dalla stessa denuncia: la cosiddetta “guerra al covid” è diventata una guerra ai poveri, o almeno a quella frangia del mercato del lavoro che si è vista più colpita dalle nuove restrizioni.
L’aumento di casi all’origine della nuova stretta è evidente, nello Stato spagnolo che dall’inizio dell’epidemia ha contato oltre un 1.200.000 casi, e più di 36.000 morti: secondo i dati relativi al 3 novembre, nelle ventiquattro ore precedenti sono stati registrati oltre 43000 nuovi casi, e 777 decessi, in tutto il territorio nazionale. Ad aprire la seconda ondata dell’epidemia è stata Madrid, la Comunidad Autónoma che a fine settembre registrava circa il 30% dei casi spagnoli, ma si sottraeva a nuove restrizioni: il braccio di ferro tra Pedro Sánchez e la presidentessa madrilena Isabel Díaz Ayuso (PP) è cessato ufficialmente il 9 ottobre con la dichiarazione dello stato d’allarme, poi esteso al resto delle province autonome il 25 dello stesso mese. Le misure comuni a tutto il territorio spagnolo prevedono il coprifuoco dalle undici di sera (dalle dieci in Catalogna) alle sei del mattino, e limitazioni negli spostamenti tra le province autonome e perfino tra le singole città, secondo i termini stabiliti dalle autorità competenti in ogni provincia. 
Nel caso catalano, le restrizioni sono giunte poco dopo la destituzione per insubordinazione del “President”, Quim Torra. Il sostituto di Torra, Pere Aragonès, aveva già dichiarato lo scorso 14 ottobre la chiusura al pubblico di bar e ristoranti (che possono solo funzionare in modalità da asporto), oltre che di cinema e teatri. È stata l’imposizione del coprifuoco alle dieci di sera, tuttavia, insieme alla possibilità di un nuovo confinamiento, a portare il 26 ottobre in Plaça Sant Jaume qualche centinaio di esponenti di Arran, collettivo della sinistra radicale indipendentista. Un corteo di circa duecento persone (secondo La Vanguardia) s’era mosso dalla Plaça Sant Jaume, sede del comune e della Generalitat de Catalunya, per dissolversi davanti al Parc de la Ciutadella, nel cui perimetro si trova il parlamento catalano. Lo striscione di apertura richiedeva un rinforzo della sanità e dell’istruzione e la sospensione reale dei licenziamenti, degli affitti e degli sfratti esecutivi (in effetti il Sindacato degli Inquilini denuncia che, come conseguenza dello stato d’allarme, sono stati sospesi solo gli sfratti emessi dall’inizio della pandemia). 
Di tenore diverso si è rivelata la manifestazione “apolitica” dello scorso venerdì 30 ottobre, che riuniva davanti alla Cattedrale di Barcellona il personale di bar e ristoranti colpito dalle restrizioni del 14 ottobre. Tra le millecinquecento persone radunate per l’occasione si trovavano numerosi negazionisti, ed esponenti del gruppo ultrà del Barça dei Boixos Nois: questi ultimi sono stati indicati come i principali responsabili dei momenti di vera e propria guerriglia urbana che hanno fatto seguito alla manifestazione. Sono stati infatti appiccati diversi incendi sulla stessa Avinguda de la Catedral e sulla centralissima via Laietana: la reazione della polizia non si è fatta attendere, con un bilancio che secondo El Mundo ammonta a dodici arresti (tra cui due minori), due camionette della polizia distrutte, e venti agenti feriti. Sono stati anche saccheggiati alcuni negozi del centro storico della città (uno dei razziatori è stato individuato il giorno seguente, dopo aver messo in vendita online la bicicletta sottratta a un magazzino Decathlon). 
Questa situazione ha reso ancora più tesa la manifestazione del pomeriggio seguente, sabato 31 ottobre, che vedeva in piazza di nuovo la sinistra radicale indipendentista: millecinquecento persone si sono radunate per protestare contro lo sgombero di Casa Buenos Aires, storico centro sociale a qualche chilometro dalla capitale catalana. Quindici camionette della polizia e due ambulanze attendevano già i manifestanti un’ora prima dell’inizio dell’evento, previsto per le sei. La manifestazione, tuttavia, si è svolta in modo pacifico fino al suo scioglimento, e un corteo si è fermato nei dintorni della sede della Generalitat de Catalunya al grido di “Non sono sfratti, è una guerra contro i poveri!”. Solo qualche decina di manifestanti ha avviato, a manifestazione conclusa, delle scaramucce con la polizia servendosi secondo La Vanguardia di materiali di costruzione lasciati incustoditi. Bilancio degli scontri di sabato: sessanta identificati, un arresto e un poliziotto ferito.

Le manifestazioni di protesta infiammano in ogni caso l’intero stato spagnolo, animate da chi trova inefficaci e inutilmente punitive restrizioni come il coprifuoco e le limitazioni alla mobilità, dal momento che i mezzi pubblici funzionano ancora a pieno regime e solo una piccola parte della popolazione è in grado di lavorare da casa. A Burgos, nel corso di una manifestazione nel quartiere di Gamonal, diverse volanti della polizia hanno battuto in ritirata davanti alla folla radunata in strada.

Sabato 31, a poche centinaia di metri dalla manifestazione principale, si consumava la protesta solitaria di Arian, un giovane impiegato che, in piedi da solo davanti al palazzo della Generalitat, reggeva un cartello scritto in spagnolo: “Moriranno in molti, però di fame”.  VIDEO

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