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Vittoria Gheno

Attivista politica

Allo studio, al lavoro e alla lotta!

Questi cento anni del Partito Comunista Italiano sono uno di quegli anniversari che non passano e che molti non si perderebbero per nulla al mondo. Neanche io. Perché, anche se sono nata nel 1996, anni dopo la Svolta della Bolognina, troppo tardi per averlo vissuto, per averne un ricorso e per saperne abbastanza, sento – come non pochi ragazzi della mia età – che il Partito Comunista Italiano è stato importante.
In questi anni di militanza, me lo sono fatta raccontare da persone, in luoghi e con modi diversi, tutti a me cari.
Vengo da una famiglia democristiana (in parte anche socialista). Da una cittadina democristiana. Da una ragione così profondamente democristiana che i politologi la definiscono “il Veneto bianco”. I miei genitori mi hanno spesso raccontato dei frequenti pregiudizi di un tempo: (iperbolicamente, ma forse non troppo) non si doveva votare PCI o partecipare alle Feste dell’Unità perché i comunisti erano dei “mangia bambini” senza Dio vicini all’Unione sovietica; o addirittura la tessera di Partito che poteva diventare ostacolo alla via coniugale. Era probabilmente la normalità dell’immane battaglia delle ideologie, che coinvolgeva uomini e Stati nel tentativo di dare risposte alla vita delle persone e di disegnare una nuova immagine del Mondo.
Ma nonostante tutto, si guardava con curiosità alla straordinaria capacità di aggregazione del PCI ed in molti – anche di diverse fedi politiche – c’era la convinzione che fosse necessario e giusto avere un partito comunista forte, capace di esercitare una solida opposizione per spingere la maggioranza a tenere conto dei lavoratori, delle loro condizioni di occupazione, della qualità della loro vita. E così qualcuno, qualche volta, votava PCI: “una volta l’ho fatto perché stava perdendo troppi voti” mi dice mio padre. Papà che, raccontandomi di Aldo Moro e del Compromesso Storico, mi ha sempre parlato anche di Enrico Berlinguer.
Quanto continua ad essere attuale quella sua celebre intervista ad Eugenio Scalfari sulla Questione Morale? Per il Segretario, rivendicare la diversità del PCI significava affermare che i comunisti avvertivano l’urgenza che il partito si opponesse all’occupazione del potere e dello Stato e che conoscesse le condizioni materiali di vita e di esistenza delle persone per poterle rappresentare ed organizzare. L’intento? Lottare per un nuovo modello di sviluppo che capovolgesse quello che confina le persone ai margini della Storia; quei margini dove nasce la barbarie.
Quando ero a Padova per seguire le lezioni in facoltà, mi ritagliavo spesso qualche minuto per passare a salutare il cippo di Enrico. La città e Piazza della Frutta non hanno mai dimenticato quella sera del 7 giugno 1984, come i compagni non dimenticheranno mai il monito di proseguire sempre sulla via “della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della civiltà”, “strada per strada, azienda per azienda, casa per casa”.
Ma Padova è anche la città dell’Università Medaglia d’Oro al Valor Militare per la Resistenza, l’Università del rettore Concetto Marchesi che lanciò l’insurrezione degli studenti contro “la schiavitù e l'ignominia” della dittatura fascista. Sono figure come la sua, membro del CLNAI e padre costituente, a ricordarci l’importante contributo alla Storia politica e civile del Paese che i comunisti diedero nella Guerra di Liberazione e nella scrittura della Costituzione repubblicana.
La Carta costituzionale sancì il sogno di un’Italia nuova, libera dalla paura e dal bisogno perché fondata sui principi di sovranità popolare, solidarietà, eguaglianza sostanziale, giustizia e pace. Il PCI richiamò alla necessità di riconoscere nel fondamento sul lavoro della nuova Repubblica la centralità della dignità della persona, che impegnasse la Stato ad essere motore del progresso sociale. Fu l’assunzione solenne di una responsabilità nei confronti del futuro: diritti civili, politici e sociali avrebbero dovuto essere un unico corpo, sì che l’esercizio degli uni non chiedesse la rinuncia agli altri.
Tra le comuniste e i comunisti che furono Madri e Padri costituenti e poi donne e uomini della Repubblica, la figura che ho più cara è quella di Nilde Iotti. In anni non facili per le donne sul fronte sociale (e politico), per conseguire il miglioramento delle loro condizioni materiali, l’Onorevole seppe fare fronte comune con compagne e colleghe in battaglie cruciali, cogliendo “il valore di autonomia della lotta di emancipazione femminile come uno dei nodi fondamentali dell’evoluzione della società”. Autorevole e imparziale Presidente della Camera, convinta della centralità del Parlamento ma consapevole della necessità di rinnovamento del Sistema, rappresentò l’eleganza, la sobrietà e il rispetto che il Partito Comunista ha sempre serbato nei confronti delle Istituzioni.
È stato fin qui un racconto un po’ nostalgico. Ma che la nostalgia non possa essere una categoria della Politica me lo hanno insegnato proprio i Compagni, alcuni dei quali il PCI lo hanno vissuto veramente. Sono loro a raccomandarmi sempre quanto sia importante che del Partito Comunista Italiano non si perdano mai di vista pregi e difetti, perché solo in questo modo si può cogliere cosa lo ha reso un partito diverso e si può avere la consapevolezza di cosa possiamo fare adesso. Perché il passato non c’è più e sul futuro abbiamo ancora molto da lavorare.
La capacità di combattere diverse battaglie, di farsi portavoce di diverse istanze, con diversi strumenti, in diversi luoghi, con diversi alleati (dalle piazze, alla società civile, al sindacato). E poi la preparazione per avere visione lunga sulla politica interna, come in quella estera, e un’idea per migliorare gli apparati dello Stato perché il potere era sentito come la responsabilità di influenzare la vita di milioni di donne e uomini. È così che si costruisce l’attitudine a rappresentare le persone - soprattutto le più deboli - e a renderle protagoniste della loro vita e della Storia.
Non abbiamo custodito al meglio questa eredità. Non siamo più stati capaci di essere accanto alle persone che sono schiacciate ogni giorno la forza opprimente della diseguale distribuzione dei diritti, della ricchezza e del potere. Non abbiamo più avuto gli strumenti per dare risposte a coloro che si confrontano con cambiamenti epocali e con il diverso. Non abbiamo più compreso le paure e i bisogni, quindi non abbiamo più saputo liberare uomini e donne su cui gravano. Li abbiamo lasciati da soli. E ci siamo lasciati da soli anche noi.
E allora dobbiamo tornare a studiare assieme, a fare di un soggetto politico una comunità di saperi e del loro collettivo esercizio critico. Dobbiamo tornare a crescere assieme – tra noi e tra la gente – nella Politica, per organizzare la democrazia di domani. Un po’ come diceva Gramsci.
E quando il PCI ci mancherà, quando ci sembrerà di aver perso la via, ripensiamo a queste parole di Nilde Iotti:
“Sarebbe un fatto estremamente importante se il giorno in cui avessimo portato il nostro Paese fuori dal guado – per usare un termine cui si ricorre molto -, fuori da questa crisi, per intenderci, potessimo dire che, dall’inizio alla fine della nostra battaglia, comunque ci siamo chiamati e qualunque forma abbiamo dato alla nostra attività politica, noi abbiamo servito per difendere i lavoratori, per garantire la libertà degli individui e la democrazia nel nostro Paese”.
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