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Federica Basile

Corpi Civili di Pace

Da Minneapolis il vizio antico del suprematismo.

Tutti noi ci saremo soffermati almeno qualche secondo sull’immagine del palazzo in costruzione dato alle fiamme durante le proteste scoppiate a Minneapolis, in risposta all’omicidio di un afroamericano per mano di quattro agenti di polizia.
George Floyd è stato arrestato lunedì sera perché sospettato di falsificazione di documenti. Nonostante non abbia opposto resistenza, nei video girati dai passanti, si vede un agente bianco inginocchiarsi sul suo collo e restarci per 8 lunghissimi minuti. Fino ad ucciderlo.

Il caso di Floyd è tutt’altro che isolato: è l’ennesimo omicidio di un afroamericano che si aggiunge a una lista infinita di nomi. Succede lo stesso a Breonna Taylor, uccisa di notte in casa propria, mentre dormiva, durante un raid della polizia. Vengono sparati venti colpi nell’appartamento, otto di questi colpiscono Breonna. Accade poco prima a Michael Dean, sparato alla testa mentre veniva fermato per eccesso di velocità. Solo per citare alcuni dei casi più recenti. 
Tutte vittime delle violenze praticate dalla polizia statunitense, i cui abusi si inseriscono in quel capolavoro tragico che è la storia della supremazia bianca.

Ma perché oggi una donna o un uomo afroamericano rischia ancora di morire, per quello che potrebbe essere solo un banalissimo controllo dei documenti? 

Tra le tantissime voci fuoricampo che ci illuminano a riguardo, prova a parlarcene a modo suo il Presidente Trump, subito pronto a marcare il territorio, per il bene dei cittadini – suo, e di una parte dei cittadini, quella bianca e repubblicana. Lo fa minacciando di inviare in città la Guardia Nazionale, twittando frasi come «O il debolissimo sindaco di estrema sinistra Jacob Frey si dà una mossa, o manderò la Guardia Nazionale per fare il lavoro che serve», legittimando la violenza di un intervento militare per sopperire a quella che sa vedere solo come l’incapacità di un rivale politico; «Questi teppisti stanno disonorando la memoria di George Floyd», bollando chi ha preso parte alle rivolte con il termine thugs, che ci sembra quasi una forma eufemistica della n-word, ma non vogliamo malignare; e ancora «quando iniziano i saccheggi, si inizia anche a sparare». 
Oltre al solito riferimento esplicito alla violenza, la scelta linguistica del Presidente è particolarmente significativa. L’ultima frase è funzionale a veicolare un messaggio chiarissimo, calata com’è in un preciso contesto storico, che Trump riesuma con troppa leggerezza, prendendo in prestito le parole di Walter Headley, il capo della polizia di Miami che nel 1967 coniò l’espressione "When the looting starts, the shooting starts". Headley disse che bisognava “dare la caccia ai giovani teppistelli, di età compresa i 15 e 21 anni, che hanno approfittato della campagna per i diritti civili. A noi non interessa di essere accusati di police brutality”.

Quello che emerge non è solo una generica incapacità di empatizzare, o la distanza siderale che intercorre tra i bisogni di un bianco e quelli di un nero, ma anche un elogio sfacciato alla violenza – come massima espressione di una libertà intesa molto male e agita a senso unico – in cui si lancia un uomo bianco che detiene il potere. E può farlo quasi solo attraverso le parole di un altro uomo bianco che lo ha preceduto e che quello stesso potere, nella sostanza, l’ha già potuto esercitare. Un potere che a sua volta gli è stato lasciato in eredità, così, per caso. E così via fino a risalire al primissimo uomo bianco che si è trovato in cima a una piramide da lui stesso costruita e che per primo ha goduto di un privilegio sociale.

L’eredità morale a cui ci rimanda il Presidente degli USA è questa. E infatti più che un tentativo di riportare l’ordine in città, ci pare la rivendicazione di una personalissima licenza per incendiarla a proprio piacimento. E ci suggerisce anche il motivo per il quale le proteste dovevano inevitabilmente degenerare in rivolte che non potevano che estendersi anche in altre città: la violenza subita dalla comunità Black e PoC – che si esplicita molto bene negli abusi delle forze di polizia e che, negli anni, si è definita come strutturalmente razzista – è istituzionalizzata e agisce a tutti i livelli della società statunitense, che da troppo tempo non si pone il problema di tradurre i bisogni di una minoranza etnica in soluzioni pratiche. 

Ma il Presidente ci insegna che è utile confrontarsi con i fatti storici, e allora tanto vale restarci dentro e completare il disegno. Nello stesso anno in cui Walter Headley pronuncia quelle parole in Florida, qualcos’altro accade all’altro capo del continente.
Nel maggio del 1967, le Pantere Nere (Black Panther Party For Self Defence), l’organizzazione per la liberazione degli afroamericani, occuparono la California State House di Sacramento, per protestare contro una proposta di legge che avrebbe limitato il diritto di portare armi cariche per la città (se non si comprende l’urgenza che c’è dietro a questa mossa, si rimanda al privilegio sociale di cui sopra). Ricordiamoli gli aspetti che contribuirono alla nascita del movimento: marginalità sociale e police brutality – quella cosa che a Headley non interessava, sempre dall’alto di quel privilegio.
La loro nascita e la loro diffusione furono il semplice riflesso di un sistema che era ed è intrinsecamente oppressivo, che ancora oggi fa sistematicamente ricorso alla violenza a sfondo razziale e in cui nascere neri significa nei fatti partire svantaggiati a priori. 

Forse non ci compete interrogarci sulle modalità violente delle proteste. Forse dovremmo limitarci a leggerle come un indice di un dolore storicizzato, che è troppo distante per essere compreso. Quando in piena pandemia si ha bisogno di mettere a ferro e fuoco la città pur di farsi ascoltare, c’è qualcosa di più grande a monte che a qualcun altro deve essere sfuggito. Interroghiamoci su questo: sul razzismo come rapporto strutturale di dominio che ancora oggi regola le dinamiche sociali, che ancora discrimina e mortifica le classi subalterne, fino a deumanizzarle, che ancora nega la dignità a tantissime donne e uomini. Dopo quasi 60 anni dalla prepotenza di Headley e dalle pratiche delle Pantere Nere ci ritroviamo ancora qui a capire come fare i conti con un razzismo sistemico mai superato, a giocare a fare i forti con chi spesso non ha i numeri per opporsi, a fare a gara a chi colleziona più privilegi sociali – secondo i soliti tre parametri: pelle bianca, pene e status sociale.

C’è un’unica verità elementare di fondo che ritorna, e i tanti Headley dovranno capire come digerirla: la vita di un uomo nero vale quanto quella di un uomo bianco; la spinta a riaffermare sé stessi e i propri diritti si rivela puntualmente essere più forte di qualsiasi abuso – della carne e dello spirito.

A questo punto restano due le vie possibili: possiamo iniziare a riconoscere e disimparare il nostro privilegio – e quindi riconoscere la nostra responsabilità sociale – o continuare a percepire i corpi altrui come qualcosa di legittimamente colonizzabile; però poi cerchiamo anche di capire come farci andare bene i palazzi infuocati di Minneapolis, che appartengono ad una lotta che non è la nostra e che non potrà mai essere silenziata da un intervento militare.

Non c’è libertà e non può esserci pace senza giustizia sociale. Potremo interrogarci sulla violenza una volta che ci diremo tutte donne e uomini liberi.
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