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Angelo Palumbo

Docente

Racconti Resistenti

Diario di bordo

Bologna
22 Febbraio
A.D. 2020 
Covid 19 anno 0 giorno 2
Ore 17 circa.

Il treno che deve riportarmi a casa ha più di mezz’ora di ritardo.
“Forse la tratta Milano- Bologna è ancora rallentata a causa di quel brutto incidente avvenuto qualche settimana fa" - mi dico e poi mi siedo nella sala d’attesa dell’alta velocità. 
C’è tensione sui volti… una strana atmosfera.
Ho lasciato da poco Marco, su in piazza, era con due suoi amici, dopo un caffè, una sigaretta e qualche altra chiacchiera sulla presentazione fatta in mattinata a Imola.
Una puntata veloce.
Un bell’incontro, organizzato da Francesco: sede in un istituto comprensivo, sala piena, gente interessante, dibattito di buon livello, un po’ di soddisfazione per le copie di “Magma” vendute e apprezzate, che non guasta.
Ero arrivato a Imola la sera prima. Sempre in treno. Freccia da Napoli a Bologna, poi regionale. Intorno alle 22 mi è venuto ad accogliere, alla stazione di Imola, Dino.

Non lo conoscevo di persona, giusto qualche messaggio su WhatsApp: aveva organizzato l’evento della mattina seguente, sabato, insieme a Francesco.
- Ciao Angelo, tutto bene il viaggio? – sono state le prime parole che mi ha detto, sorridendo.
L’accento non era propriamente romagnolo.
- Ti ho portato un presente – appena entrati in auto, mi ha porto una bottiglia di Sangiovese – non si può arrivare in terra romagnola e non imbattersi immediatamente in un buon bicchiere di rosso, almeno per tradizione ed ospitalità.
In treno, avevo letto, di sfuggita; sullo schermo della carrozza dell’alta velocità, che c’era stato il primo caso di Coronavirus in Italia, mi pare nella bassa Lombardia, era un ragazzo, forse un manager.
“Sarà stato in Cina, magari per affari: il virus porta giacca e cravatta, speriamo non abbia contagiato nessun altro” la prima cosa che ho pensato, ma poi la mia attenzione è stata attirata dal meteo, dalla formazione della Juve e dalla velocità del treno passate in ordine nella parte bassa dello schermo, infine, attraverso le lenti, abbassato lo sguardo, ho continuato a leggere “Marinai perduti” di J.C. Izzo.
Izzo e la sua Marsiglia mi hanno spesso fatto compagnia nei miei viaggi, in ogni tempo, in ogni luogo.
Abbiamo avuto difficoltà a trovare l’affittacamere dove Francesco mi aveva prenotato per la notte. Abbiamo girato a vuoto un bel po’, poi Dino ha visto il civico giusto e mi ha accompagnato sino all’uscio.
La padrona di casa, una signora di mezz’età, mi ha, immediatamente, portato nella mia camera, la stanza del figlio, che fittava quando il ragazzo partiva.
Ho pagato, ringraziato, ho acceso una sigaretta e mi sono messo a lavorare al mio “romanzo criminale”.
Nella stanza c’era un odore misto di candeggina e candele aromatiche, sulla scrivania una bottiglina di amuchina.

9 del mattino. Squilla il telefono.
- Uè professo’, dormito bene? Ti passo a prendere tra mezz’ora, ti porto a fare colazione.
- Sì, tutto bene, ok per le 9.30.
Francesco lo conosco da una vita, praticamente è un fratello.
Doccia, ancora odore di candeggina, riporre gli abiti nello zaino senza dimenticare la bottiglia di Sangiovese, il volume “Magma” nella tasca della giacca, con piccoli segnalibri ricavati da un foglio ad indicare le poesie da leggere tra qualche ora.
Ero pronto.
- Un caffè ed una brioche, per te France’?
- Niente, grazie, magari prendo un pacchetto di gomme per dopo, ho già fatto colazione.
Appena usciti, io ho acceso una sigaretta, lui il suo sigaro, abbiamo iniziato a discutere con quella complicità che ci contraddistingue da trent’anni circa…come se ci fossimo visti la sera prima e quella prima ancora.

Siamo, poi, saliti in auto, siamo andati a prendere Marco alla stazione, quindi, di corsa, riunione prima dell’evento; al tavolo: Marco, Francesco, Dino, io e Matteo (che presentava il suo libro insieme al mio).
Parlare di poesia, di scrittura, di impegno sociale, di quartieri difficili, di Nord, di Sud, di scuola con lo stesso orizzonte marino negli occhi e la stessa inquietudine vulcanica nel cuore.
Pare che i casi di persone contagiate dal virus siano in aumento. Non più uno solo.
- France’, due tortelli dove li mangiamo?
- Conosco un posto buono anche per la pizza.
- Va bene, ma in Romagna tortelli e Sangiovese, o no?
- Certo!
Anche Marco ha preso tortelli a ragù, Francesco pizza… eravamo solo noi tre.
Dopo pranzo un bel giro alle acque minerali: omaggio ad Ayrton Senna, nato il 21 di marzo, un giorno prima di me, come Alda Merini, ariete… io, però, ho sempre tifato Prost.
C’è qualcuno, nel parco, con la mascherina…
Alle 15.30 io e Marco abbiamo salutato Francesco e, con un regionale, abbiamo raggiunto Bologna.

Dopo un caffè e due chiacchiere in stazione con una coppia di amici, un’altra sigaretta, un saluto veloce e la promessa di rivederci presto a Napoli, mi avvio all’appuntamento con la mia freccia… Marco aspetta il suo autobus.
Il treno è annunciato in ritardo: oltre 30 minuti.
Ma quante persone portano la mascherina?
Non molti, ma è strano, in ogni caso non ne avevo mai visto tante, tutte insieme.
Mi guardo intorno: sguardi strani, straniti, spaesati.
Prendo il telefono, per ingannare l’attesa, e scopro che, addirittura, c’è un focolaio di Sars Cov2 in Italia, si parla di un paesino: Codogno. Decine di casi.
Inizia a cambiare il nostro lessico: paziente 1, focolaio, contagio. Spero non possa parlarsi di epidemia.
Finalmente il treno arriva. Salgo e trovo il mio posto. Difronte c’è un ragazzo che lavora al pc. L’altro sediolino è vuoto. Al mio fianco, invece, c’è un altro ragazzo bardato come fosse uscito dalla serie A.R. o da un film di fantascienza di infima categoria: mascherina, guanti in lattice, occhiali, cappellino. Dall’accento sembra salernitano.
Mentre lo guardo, incredulo, il giovane che ho di fronte tossisce, ma lo fa nella piega del gomito. Mai visto fare. Gli altri passeggeri lo guardano di sottecchi, qualcuno anche in malo modo… per un colpo di tosse.
Ma che succede?
Istintivamente mi nascondo bocca e naso nel collo del maglione, ma perché?
Affronto la cosa con ironia e autoironia.
Faccio un giro sui miei social: inizio a capire che forse ci siamo infilati in un tunnel. Leggo di regole comportamentali, regole sociali, di esperti che parlano di epidemia e di possibili morti, di altri che, invece, paragonano il nuovo virus ad una semplice influenza.
Inizio a spaesarmi anche io.

Cerco Enrico su Facebook, gli chiedo lumi.
- Ma ci dobbiamo preoccupare? Che può succedere? Cosa si dovrebbe fare? -
- È una cosa seria, si rischia il collasso del Sistema Sanitario Nazionale. Ci vogliono misure rigide, draconiane, bisognerebbe isolare il nord-est e ridurre la vita sociale al minimo nel resto del paese -.
“Cazzo” penso “se Enrico, un ligure molto pacato, razionale e obiettivo, uno scienziato, è preoccupato, c’è poco da stare sereni”.
- Quindi si rischia di avere molti morti? -
- Credo di sì, non tanto, o non solo per la malattia in sé, ma per l’esaurirsi di posti nelle terapie intensive…perché i numeri crescono in modo esponenziale. -
Una doccia fredda, inizio ad avere lo stesso sguardo dei miei compagni di viaggio.

Intanto siamo arrivati a Firenze.
Restiamo a Santa Maria Novella una decina di minuti: scendo a prendere una boccata di fumo nei pressi della porta.
Anche sui binari toscani si respira un’aria strana, un’aria insalubre dal sapore malato. Mascherine, volti, maschere tutte identiche, con la medesima espressione.
Risalgo subito dopo il fischio del capotreno.
Si sono liberati alcuni posti, il personaggio uscito da E.R., pian piano inizia a parlare con una ragazza dell’altra fila, anche lei campana. Parlano di lavoro. Lavorano entrambi in provincia di Brescia, tutti e due impiegati nella scuola, lui tecnico di laboratorio, lei applicata di segreteria. 
Nonostante qualche sguardo scambiato con i due, non mi intrometto e nemmeno dico che insegno. Non mi va di parlare. Soprattutto di scuola, ora.
L’altro ragazzo continua a lavorare al suo computer, stacca difficilmente gli occhi dallo schermo.
Io, invece, riprendo Izzo, qualche pagina, poi rialzo lo sguardo… qualche altro rigo… ma penso ad altro, torno indietro, rileggo… vado avanti di poche parole… nulla, non c’è verso di leggere… i pensieri portano via l’attenzione.
Provo, allora, ad ascoltare un poco di musica: inserisco gli auricolari, tra un De André e un Pinuccio, si inserisce qualche provvidenziale vecchio successo degli Squallor a strapparmi un sorriso, anche se timido. 
Dura poco, però.
Decido di alzarmi, di fare qualche passo tra i corridoi, arrivare fino al bagno.
Nel lasciare la mia poltrona, provo a dare meno fastidio possibile al mio vicino; non so perché, ma conciato in quel modo lo vedo più debole, almeno di me, e degli altri che abbiamo intorno. 
Strana sensazione! Passeggio, facce stralunate, tristi, o, comunque, non socievoli come potrebbe essere solitamente.
In fondo alla carrozza, nel posto singolo, c’è una ragazza dai tratti orientali, ovviamente con mascherina, che sembra chiudere un dipinto, il punto di fuga di un’opera su tela. La convergenza di tante solitudini parallele, anche di chi viaggia in compagnia, di chi prova a parlare, a parlare d’altro.
Entro in bagno, mi sciacquo il viso, riapro la porta utilizzando un fazzoletto, perché? Non l’ho mai fatto.

280 km/h.
Manca poco a Roma.
Provo a vedere un poco di partita, c’è Spal – Juve.
Mi sintonizzo dal mio telefono, l’attenzione non regge nemmeno il calcio, ma ci provo: Ronaldo ha già segnato il primo gol per i bianconeri; il dottor House al mio fianco è attratto dallo sport nazionale e quindi, con distrazione, giro un poco lo schermo, così da fare in modo che anche lui potesse seguire il gioco… vuole distrarsi anche lui, vuole andare oltre la sua mascherina, oltre la sua tensione.
E pensare che nemmeno due ore fa ero contento… felice per il mio libro… in mattinata parlavo di poesia, leggevo poesie.
Gran tiro di Cuadrado, respinge Berisha… le azioni mi passano anonime d’avanti agli occhi, miste alle parole scritte da Enrico.
Raddoppio della Juve, gol di Ramsey.
Spengo, il tecnico di laboratorio ci resta un po’ male.

Tiburtina – sprazzo di normalità.
Un uomo sulla quarantina, qualche poltrona più in là, fila opposta, si alza e si avvia all’uscita, si mette in coda alla piccola fila di viaggiatori che ci lasciano a questa stazione.
Scende per ultimo: basco in testa, kefiah, paltò lungo sugli stivali neri, senza mascherina, senza guanti. Ha lasciato tutte le sue cose in treno: trolley, tablet e telefonino sul tavolino, persino la bottiglina con l’acqua che sorseggiava fino ad un attimo prima.
Mi incuriosisco. Lo seguo con gli occhi.
Appena fuori, uscito per ultimo, incontra una ragazza, appena arrivata, di corsa, dalle scale. Penso l’aspettasse per farla salire e proseguire il viaggio insieme, invece: un abbraccio stretto, un bacio lungo, un altro abbraccio (oltre ogni contagio), lui risale, lei lo saluta con la mano, arretra e si ferma a guardare fisso il treno che riparte… lui dietro i vetri della porta.

A Termini il mio dirimpettaio si alza, accenna il suo primo sorriso mentre si stiracchia un poco, raccoglie con molta cura tutte le sue cose, le sistema con ordine, si prepara, saluta me e l’uomo mascherato con un cenno della testa e scende… lui non aveva nessuno ad aspettarlo, almeno sul binario.
La stazione principale di Roma ha la stessa aria di quella di Firenze.
Si riparte.
La carrozza si è in gran parte svuotata. Il mio vicino si posiziona difronte alla sua collega salernitana. Ricominciano a parlare.
Resto solo. Chiedo ancora compagnia ad Izzo.
Roma alle spalle, treno lanciato a tutta velocità a squarciare nel buio la Ciociaria.
Con il vagone semivuoto, quasi deserto, l’atmosfera è ancora più spettrale.

Napoli, stazione di Afragola.
Dieci minuti alla destinazione, tutti in silenzio ci prepariamo a scendere. Distanti, in fila, a testa bassa.
Arrivo, mi avvio alla metro, non vedo l’ora di tornare a casa.
Ho bisogno di abbracci.

Bergamo

Mare
Bare
Legno desolato
Mortificato
Numeri
tristi
caduti
tatuati sulla pelle
nei neuroni
in ogni singola lacrima
persa
in un mare
di legno isolato
abbandonato a sé stesso

Ognuno è la sua bara.


Angelo Palumbo è nato a Napoli quarantotto anni fa.
L'adolescenza l'ha trascorsa nel quartiere Materdei: zona "borderline" tra Vomero e Sanità. Si trasferisce, poi, a Brusciano (Na), in una delle periferie costruite dopo il terremoto del 1980. Ora, dopo, varie tappe a Pomigliano d'Arco, Parma, Vicenza, Roma, e dopo un altro periodo nel suo ghetto, è tornato a vivere a Napoli.
Laureato in lettere moderne, padre di due bambini, insegna da sei anni, di cui gli ultimi cinque in una cosiddetta zona di frontiera: a Caivano, nel Parco Verde.
Prima di lavorare come professore, ha avuto esperienze istituzionali, sociali e giornalistiche: in Regione Campania per tre anni, presso l'assessorato all'istruzione, occupandosi del progetto Scuole Aperte; come redattore presso tante testate locali come radio crc; come progettista ed esperto, con alcune associazioni del terzo settore, in progetti di recupero per minori a rischio (Quartieri spagnoli, Ponticelli, ecc...).
Nel 2012 supera il tanto atteso concorso a cattedra, risultando idoneo. Con alcuni dei suoi futuri colleghi fonda un'associazione per la scuola, "Panta rei", ed inizia una estenuante battaglia per farsi riconosce il ruolo; questa vertenza lo porta ad essere uno dei leader nazionali dei cosiddetti idonei, presidente di "Panta rei" e direttore della testata online "Newscuola"; arriva, in questo modo, a trattare, ottenendo il risultato sperato, con i vertici politici di Ministero, Camera dei Deputati e Senato.
Ha fondato, ultimamente, insieme a centinaia di amici, il movimento politco culturale Onda, di cui è presidente.
Scrive poesie e racconti, pubblica nel 2019 la raccolta di poesie “Magma”, con la casa editrice Bagarì; sta ultimando un romanzo ispirato al libro di Stefania Limiti, “L’Anello della Repubblica”.

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