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Serana Mottola

Dottoranda di ricerca in Linguistica all’Università “Parthenope” di Napoli.

Donne ingegnere e come parlarne

Indovinello. Un ragazzo è in macchina con suo padre. I due fanno un incidente: il padre muore sul colpo, mentre il figlio, gravemente ferito, viene trasportato d’urgenza in ospedale per un intervento. Il chirurgo incaricato di operarlo entra in sala, vede il ragazzo sul lettino e dice: “Ma io non posso operarlo, questo è mio figlio!”. Com’è possibile?

Inizia così la puntata “Femminile plurale” del podcast Coffee for two, realizzato da Giorgia e Gianrico Carofiglio per il quotidiano Domani. Nell’episodio, un confronto pacato tra figlia e padre sul tema dell’invadenza dello sguardo maschile nella società, emergono spunti di riflessione interessanti sulla rappresentazione della donna e su quante situazioni o esperienze del nostro quotidiano siano state pensate prendendo un uomo come parametro di riferimento. Dai crash test sulle auto alla struttura dei bagni pubblici, fino ad arrivare alle parole che usiamo ogni giorno, molto più di quanto crediamo è tarato solo sugli uomini e non anche sulle donne. E qui torniamo all’indovinello iniziale: semplicemente, il chirurgo che entra in sala operatoria e si rifiuta di operare il paziente, in quanto suo genitore, è la madre. È, udite udite, un chirurgo donna.

Se avevate pensato da soli a questa soluzione, complimenti: avete tutta la mia stima. Personalmente, trovandomi ormai spesso sul chi-va-là appena annuso un discorso su inclusione e parità di diritti, come prima reazione avevo pensato si trattasse di una coppia omosessuale composta da due uomini, entrambi genitori del ragazzo. L’opzione del chirurgo donna mi è balenata solo continuando ad ascoltare i Carofiglio. Eppure sono una linguista e ho una buona padronanza della mia e di altre lingue, e sono quindi consapevole del fatto che in italiano la desinenza maschile di molte parole si riferisce a persone di sesso sia maschile che femminile. È il caso di molti termini che esprimono mestieri e professioni: medico, ingegnere, insegnante e, appunto, chirurgo. Con le parole che escono in -a e che pure si riferiscono tanto agli uomini quanto alle donne – dentista, psichiatra, giornalista – vengono in nostro soccorso gli articoli ad indicarci il genere della persona di cui si parla: avremo, quindi, una / la dentista e un / il dentista, a seconda dei casi. Nulla possono gli articoli, invece, in casi come il chirurgo di cui sopra, il quale richiede necessariamente un articolo maschile, a meno di non adottare la formula “donna chirurgo”.

Mi perdonerete questa digressione squisitamente linguistica, ma era necessaria per esplicitare un concetto troppo spesso sottovalutato, anche se trito e ritrito: le parole che usiamo hanno un effetto concreto su come ragioniamo e percepiamo la realtà. Il fatto che non esista, in italiano, il corrispettivo femminile di chirurgo può portare a non immaginare che una donna possa ricoprire quel ruolo o a richiederci uno sforzo in più per mettere a fuoco uno scenario del genere, come nel caso dell’indovinello rubato al podcast Coffe for two. Razionalmente, sappiamo – lo sappiamo, vero? – che esistono molte donne chirurgo e che non c’è motivo per il quale non dovrebbe essere così; istintivamente, però, influenzati dalla nostra grammatica e dal maschilismo latente che accompagna molti ambiti della nostra vita, tendiamo a dare per scontato che quel contesto sia primariamente maschile, e forse, dopo, in alcune regioni del paese, se va bene e la giunta non è leghista, femminile.

Nella settimana del International Day of Women and Girls in Science (11 febbraio, ndr) mi sono imbattuta in diversi dibattiti social su questi temi, più o meno voluti, alcuni dei quali su pagine commerciali. Uno di questi si è sviluppato in seguito ad un post pubblicato su Instagram da una nota marca di assorbenti, nel quale si riportava l’attenzione sul fatto che, in Italia, “le ragazze che pensano di iscriversi alla facoltà di ingegneria sono solo il 5%, mentre i ragazzi sono ben il 26%”. Il post si chiudeva con “Possiamo fare tutto, anche gli ingegneri”, e nella didascalia c’era scritto “In occasione di questa Giornata vogliamo spronare tutte le ragazze a concedersi la possibilità di diventare qualunque cosa, anche un ingegnere”. “Addirittura un ingegnere, minchia!”, ho pensato quando una mia amica, ingegnere biomedico, mi ha inviato lo screenshot, un po’ divertita e un po’ incredula. Avanguardia pura, direbbe ironica e lapidaria Miranda Priestly. Senza voler essere per forza malpensanti, che è stancante, costringe a stare corrucciate e poi ci vengono le rughe e siamo brutte, mi verrebbe da dire che questo post è stato un tentativo mal riuscito di proporre un messaggio inclusivo. Eppure, sarebbe bastato utilizzare articoli femminili – le ingegnere e una ingegnera – per rafforzare un po’ questo goffo tentativo di incoraggiare le ragazze a spingersi oltre i confini dell’immaginabile e osare di entrare nel sacro harem dell’ingegneria. (Mi scuso per questo atteggiamento passivo-aggressivo nei confronti della categoria, da imputare soprattutto a mio fratello e al mio fidanzato, entrambi ingegneri, come non mancano di far presente a chiunque rivolga loro la parola.)

Naturalmente, non è ad una casa produttrice di assorbenti che pretendo di affidare il compito di educare la società all’inclusività, linguistica e non. Sicuramente, però, chi si interfaccia con un pubblico prevalentemente femminile, come quello degli assorbenti mestruali, deve considerare questi aspetti dei messaggi che propone. Così come chiunque lavori o operi con e sulle parole può – e deve, a mio modesto parere – intervenire, soprattutto quando la polemica verte sulla cacofonia di certe declinazioni al femminile di termini maschili, come avvocata o ministra, talmente corretti ormai che neanche Word me li segnala come errori. Vi sembra possibile che abbiamo integrato con tanta disinvoltura nel nostro lessico parole come boomer, taggare o screenshottare (Word non mi segnala neanche questi ultimi due, argh!), ma troviamo inammissibile la sola idea di abituarci a ingegnera, medica o chirurga? È davvero cacofonia, o misoginia interiorizzata e maldestramente mascherata da amore puritano per la lingua di Dante? Dov’erano questi esteti e queste estete della lingua quando si diffondevano “fondamentalmente” o “esco il cane”?

Quello che scriviamo o diciamo influenza il modo in cui pensiamo. Ragionarci in modo aperto e sforzandosi di uscire un po’ al di fuori del proprio punto di vista, come fanno Carofiglio padre e figlia, non appianerà le discriminazioni di genere nelle quali galleggiamo, ma può sicuramente aiutare.
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