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Yasmin Tailak

Studentessa italo palestinese

Si scrive 'modello israeliano', si legge 'apartheid sanitaria'

Non ho mai sentito nominare Israele tante volte come nelle ultime settimane. Israele è ovunque: nei titoli di giornale, sulle bocche dei cronisti e opinionisti televisivi, nelle ultime notizie, e, come spesso accade, il suo nome è al centro di un' interpretazione parziale e tendenziosa dei fenomeni a cui è associato.
'Buone notizie da Israele sulla vaccinazione', 'la lezione della vaccinazione di massa in Israele', e poi 'il buon esempio israeliano', 'il modello israeliano', 'guardiamo a Israele'.
Sì, guardiamo a Israele, ma guardiamolo bene, con una lente grandangolare cui non sfugga niente, che possa darci una visione a trecentosessanta gradi su ciò che accade nella 'più importante democrazia in Medio Oriente', e traiamo le conclusioni su questa ennesima, non richiesta apologia.
Israele è il paese che ha eseguito, a livello globale, il maggior numero di vaccinazioni: si tocca la cifra di quattro milioni di cittadini, un risultato apparentemente formidabile prodotto da una precisa scelta di governo, che per recuperare credibilità e consenso, ultimamente molto al di sotto della soglia di soddisfazione, ha messo in atto una corsa alla vaccinazione che non guarda in faccia nulla, costi, contratti, numero di dosi, e che non guarda in faccia – ovviamente – gli interessi del popolo palestinese.

Il filosofo Achille Mbembe chiama necropolitica quella capacità del potere di decidere chi può vivere e chi deve morire. Una linea di confine tra chi è dentro e chi è fuori dal diritto, tra chi è preservabile e chi è sacrificabile, e i palestinesi sono sempre stati, dall'inizio dell'occupazione israeliana, i soggetti 'uccidibili', il cui annientamento, che sia per 'errore militare, che sia per 'effetto collaterale', o che sia per decisioni politiche ben ponderate, è qualcosa di legittimo, se non auspicabile. Il palestinese è un peso di cui liberarsi, un fardello da tirare giù per alleggerirsi.

E' dall'inizio della pandemia che giungono notizie sconfortanti da Gaza e dai Territori Occupati. Le condizioni igienico-sanitarie nella Striscia sono da anni precarie: Israele blocca la rete idrica per diverse ore al giorno, impedendo ai palestinesi di lavarsi, cioè di rispettare quella regola basilare per tenere lontano il coronavirus, e molti altri tipi di batteri e malattie. A Gaza c'è scarsità di tutto: di acqua potabile, di cibo, di energia. Gli inverni sono particolarmente freddi e spartani, non c'è luce, non c'è calore. Gli ospedali – manco a dirlo, bersaglio preferito dei bombardamenti sionisti – sono ospedali sulla carta, ma hanno una clamorosa mancanza di attrezzatura decente, di strutture adeguate, di terapie e di farmaci. Non c'è nulla. La Palestina, quel poco che ne è rimasto, è totalmente devastata da qualunque punto di vista la si guardi, da decenni di occupazione, guerra e privazione.
Il blocco del transito di risorse causato dalle restrizioni e dai decennali embarghi alla Striscia di Gaza hanno reso il territorio, di fatto, un affollatissimo luogo di morte e disagio. Nei Territori i continui check-point che frammentano lo spazio colonizzato, dichiarano, di fatto, l'impossibilità per un palestinese di muoversi liberamente in caso di emergenza.

Per non parlare della situazione nelle carceri, altro capitolo particolarmente vergognoso di un libro di vergognosa occupazione: quasi 160 bambini sono attualmente detenuti negli spazi israeliani, in attesa di processo. Bambini. Se la situazione carceraria già in Italia espose, a marzo-aprile dello scorso anno, tutte le difficoltà dell'incontro tra spazio detentivo e fenomeno pandemico, dobbiamo immaginare quale tremenda situazione si dispieghi per un bambino-detenuto (la coppia dei termini è così assurda e incomprensibile per la nostra civiltà da risultare fredda e aliena) in una prigione israeliana.

Il problema che Israele ha nei confronti della salute palestinese è un problema di responsabilità che non riguarda unicamente il coronavirus. Secondo i dati del Ministero della Salute palestinese, un gran numero di decessi nei territori palestinese è dovuto alle malattie oncologiche. A Gaza alcuni trattamenti, come la radioterapia e farmaci specifici non sono disponibili a causa dell'embargo, ed è, perciò, necessario che un malato oncologico chieda ad Israele il permesso per spostarsi, per non rimanere bloccato, confinato in un territorio senza speranza e per poter ricevere delle cure adeguate. Solo nel 2017 46 palestinesi sono morti per cancro aspettando che Israele desse un consenso allo spostamento per ragioni sanitarie.

La meravigliosa, quasi miracolosa, campagna vaccinale israeliana è un altro evidente prodotto dell'ingiustizia e della gerarchia che intercorre tra israeliani e palestinesi. L'eccellenza sanitaria dello stato ebraico ha dato – ovviamente – priorità a tutti i suoi cittadini, sì, tutti, anche quelli che illegalmente occupano insendiamenti che avrebbero dovuto liberare da parecchio tempo, e chiaramente questa priorità ha un costo, il solito costo: la vita del palestinese, ridotta all'osso dall'occupazione e dalla pandemia.
Laddove un anziano israeliano ha già ricevuto le due canoniche dosi di vaccino Pfizer o Moderna, un anziano palestinese gazawita dovrà aspettare ancora un bel po', visto che Tel Aviv ha fino ad oggi bloccato ai palestinesi l'accesso a qualunque vaccino, anche quello russo.
Alcuni parlamentari hanno chiesto, proprio nelle ultime ore, che il trasferimento a Gaza dei vaccini sia controbilanciato dal rilascio di due ostaggi israeliani. Il che suona molto come 'vi permetteremo di vivere, però questo è il prezzo'. La salute come ricatto, la vita come concessione.

La supremazia israeliana si fonda su una lunga sequela di sostegni economici, di mutismo selettivo, di indifferenza nei confronti dei trattati internazionali, e certamente di una grandissima ignoranza rispetto alle proprie responsabilità nella sorte dei palestinesi.
Tutto ciò non stupisce affatto: è proprio degli Stati militari e securitari l'idea che ci sia un umano da salvare e un non-umano da schiacciare, il colonialismo – antico e moderno – si è fondato proprio sull'assunto che una terra potesse essere spossessata e conquistata come un oggetto, e i suoi abitanti cancellati o ridotti a termini minimi di umanità.
Questo, però, sarebbe conveniente: che non si parli più di modello israeliano ignorando la tremenda esclusione da una vita degna di questo nome del popolo palestinese.
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