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Fabio D'Angelo 

Ingegenre e "cefalo" 

Il calcio è la metafora del Paese

Vigorito e la frizione bruciata

Circa venti giorni fa, Oreste Vigorito, uno dei padri dell’energia eolica italiana e presidente del Benevento Calcio, dopo il ko in casa contro il Cagliari, ai microfoni di Sky, parlando di Mazzoleni, l’arbitro al VAR della partita, la tocca pianissimo: "Per una domenica il calcio ha bisogno di fermarsi . Tutta l'Italia ha visto, tranne il signor Mazzoleni. Dopo 15 anni parlo di un arbitro, dico qualcosa che mi farà mandare via prima del campionato. Mi sono arrivati messaggi da Napoli e da altre parti, quando si vuole ammazzare il Sud mettono lui al VAR. Si può anche togliere, il signor Mazzoleni col culo su una panchina non riesce e guardare uno schermo. A vedere quello che tutta l'Italia ha visto, tranne lui"

L’esternazione di Vigorito è stata ampiamente analizzata e criticata. Per cui a freddo e a campionato finito, tutti possiamo convergere sul fatto che al nostro sia scappata la frizione. Con un’assoluta cavolata l’equazione Mazzoleni nemico del Sud. Che magari fosse vera. Se il nostro principale problema fosse rappresentato da un arbitro al VAR, probabilmente l’avremmo già risolto.

C’era una volta il goal di Turone


Ma discolpa del Presidente del Benevento possiamo dire che era vittima del dramma sportivo che stava vivendo: la sua squadra è retrocesso principalmente per demeriti proprio, dissipando in un girone di ritorno horror ben dieci punti di vantaggio rispetto alla zona retrocessione. Ciò nonostante, Vigorito buttandola in caciara, riesce a toccare vari nervi scoperti. Esempio: chiedi a un tifoso medio del Napoli di Mazzoleni e lui subito ti parlerà sì, ok, del  goal di  Osimhen annullato dal nostro al Var in Napoli Cagliari, ma solo per attaccare bottone e raccontarti nei dettagli della Supercoppa italiana del 2012 tra Napoli e Juventus e dell’espulsione di Koulibay in Inter Napoli del 2019, con  migliaia di persone (7.400 per i rappresentanti della procura federale in campo) che intonano cori razzisti diretti al giocatore del Napoli e Mazzoleni che si rifiuta di seguire il protocollo e interrompere la partita e poi espelle per proteste – assolutamente legittime – Koulibay. Ma è riduttivo fermarsi al rapporto complicato tra Mazzoleni e il Napoli. Per cui, chiedi più in generale a un tifoso un parere della classe arbitrale italiana e lui ti risponderà con francesismi vari. Chiedilo a un tifoso della Roma e lui ti racconterà del goal annullato a Turone in un Roma Juventus di quarant’anni. Chiedilo a un tifoso del Milan e ti mimerà fotogramma per fotogramma del goal fantasma di Muntari. Chiedilo agli interisti e loro ti tireranno fuori lo scontro Ronaldo/Iuliano e così via.

«Il calcio è come il cibo: se ti abitui all'aragosta, poi il risotto coi funghi non lo vuoi » (Osvaldo Bagnoli)

Gli arbitri hanno permesso a torto o a ragione a quasi tutti i tifosi di lamentarsi e di evocare la presenza di un complotto contro la propria squadra del cuore. Per cui, se avesse veramente voluto, a Vigorito sarebbe bastato pochissimo per incendiare il Palazzo. Sarebbe bastato invocare il ritorno del  mitico sorteggio integrale per le partite di Serie A. Una pozione magica, una medicina ultra performante, un vaccino che quando somministrato ha dato risultati sorprendenti, tipo far vincere a metà degli anni ottanta lo scudetto al Verona. In verità quello della stagione 1984-85 era un sorteggio calmierato, con un criterio a fasce, ma tanto è bastato per sovvertire e rovesciare i rapporti di forza consolidati. Se avesse voluto, Vigorito avrebbe potuto con poche parole dare fuoco al Palazzo e portare la discussione verso il tema dei temi che intossica e avvelena da sempre il Calcio italiano: Prendete l’almanacco, sfogliatelo alla voce squadre campioni d’Italia dal 1945  ad oggi e  vi accorgerete di un pressoché continuo dominio di due città - Torino e Milano –  e tre squadre – Juventus, Milan e Inter - con rarissime eccezioni. Cito quest’ultime per puro esercizio di memoria in assoluto ordine sparso: la Lazio di Chinaglia e poi quella di Nesta, La Fiorentina, il Bologna degli anni sessanta, il Cagliari di Gigi Riva, la Roma di Liedholm e poi quella di Totti, il Verona di Bagnoli, il Napoli di Maradona, il Torino di Pulici e Graziani, la Samp dei gemelli del Goal Vialli Mancini. Poi basta. 

La sudditanza psicologica

Ma meritano una menziona anche tutte le squadre che nei vari anni avrebbero meritato di vincere qualcosa. Ad esempio, i vari Parma di Nevio Scala, di Ancelotti e di Malesani. L’Udinese di Guidolin, il Napoli di Sarri e ora l’Atalanta di Gasperini. In molti di questi casi, a bloccare il miracolo sportivo sul traguardo è stato quel fatto matematico scientifico geografico per cui, calcolatrice alla mano, nel settanta percento dei casi la mela cade in due città. Come spiegarselo? Certo, con il potete economico, la maggiore capacità di spesa, la tradizione sportiva, la mentalità vincente. Ma chi segue il calcio sa che queste cose non sempre bastano. Capitavano stagioni che sono molto combattute, in cui il risultato resta in bilico quasi fino all’ultima giornata e qui entra in gioco un fattore diverso che prima di Calciopoli, i vari commentatori sportivi amavano chiamare “sudditanza psicologica”. Ossia un complesso di cose che nella battaglia corpo a corpo tra squadre, orientava la vittoria verso quella politicamente e mediaticamente più forte. 


La sudditanza psicologica, spiegata bene.


La sudditanza psicologica la spiega bene Sandro Mazzola nel 2011 a La Repubblica. Stagione 1970-1971: Napoli, Milan e Inter si contendono lo scudetto. Questo fino allo scontro diretto e decisivo tra Inter e Napoli. Gli azzurri vanno in vantaggio nel primo tempo e vedono lo scudetto, poi succede qualcosa nello spogliatoio che finisce per condizionare irrimediabilmente la gara. A raccontare questa cosa è il protagonista principale, Sandro Mazzola, all’epoca capitano e bandiera dell’Inter:" Sì, feci una cosa proibita dal regolamento. Sbagliata. Con un arbitro internazionale come Sergio Gonella. La partita era di quelle decisive. […] Finito il primo tempo, mentre i compagni sono nello spogliatoio, io mi dirigo in quello dell'arbitro Gonella. Entro come una furia e lo aggredisco verbalmente. Rammento di avergli detto che non poteva arbitrare in quel mondo, che ci stava penalizzando gravemente e di aver usato qualche espressione colorita il cui senso era: o si dà una regolata o da San Siro usciamo tutti fritti: noi, perché perdiamo partita e scudetto e lei, perché con il suo arbitraggio sarà stato il principale responsabile della sconfitta […] Col senno di poi, probabilmente, misi addosso un tale senso di colpa a Gonella che finii per condizionare il suo arbitraggio”. Detto fatto. Inizia il secondo tempo e l'Inter ottiene un rigore contestatissimo. Lo realizza Boninsegna, che durante la ricorsa si ferma in maniera plateale. Il rigore non sarà ritirato e il Napoli perderà in un colpo solo testa, partita e sogni di scudetto.

La Superlegue

D’altronde Boniperti diceva che “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”.  E per molti –  non solo per la Juventus – quella frase ha rappresentato perfettamente il modo di vivere lo sport, la vita, il calcio. Un mantra indiscutibile, che forse ha ispirato anche i promotori della Super League. Per chi se la fosse persa, la Super League sarebbe dovuto essere – il progetto è fallito nel giro di 48 ore - un campionato europeo annuale per 20 squadre di club, che portava in sé una sostanziale differenza con le attuali competizioni europee per club. Il criterio di ingresso: alla Super League avrebbero dovuto partecipare di diritto 15 squadre, mentre altre 5 sarebbero decise in base al merito sportivo della stagione precedente. I 15 club fondatori non avrebbero corso neanche il rischio di “retrocedere”. Una differenza sostanziale rispetto all’attuale Champions League – il cui ingresso è  deciso interamente sulla base del merito sportivo – che avrebbe garantito quindi entrate fisse e ridotto a zero il rischio d’impresa, legato ad esempio a una stagione andata male che avrebbe inciso notevolmente sugli incassi. 

Un meccanismo che avrebbe reso la piramide calcistica una parete verticale, impossibile quindi da scalare. Come si può competere con chi incassa per diritto acquisito almeno dieci volte più di te?


Il calcio è la metafora del Paese

Come si può competere se i vincitori e vinti sono decisi già dalla nascita? Bella domanda, ma torniamo al campionato. Si è concluso con l’Inter – a dimostrazione del fatto che la statistica non mente e la mela non cade mai troppo lontano da due città - che vince meritatamente lo scudetto. Il Benevento di Vigorito finisce in B in compagnia di Crotone e Parma. Mentre la sfida Champions – se il Napoli avesse battuto il Verona all’ultima giornata, avremmo parlato probabilmente della ragione profonda che ha ispirato la Superleague e del concetto di rischio d’impresa applicato alla Juventus – sembra quasi fatta a posta per corroborare quanto detto da Arrigo Sacchi un po’ di tempo fa: “Il calcio è la metafora della vita sociale, politica ed economica di questo Paese in forma anche più eclatante. Quindi, se il calcio non va bene, vuol dire che anche il Paese non va bene". E il Paese non va, dato che il piazzamento Champions ci parla di una nazione spaccata e a due velocità. Sì, perché Milano – sia nel Paese che nel calcio - torna prepotentemente al vertice. A farle compagnia l’Atalanta e la Juventus. E qui un occhio attento e allenato a trovare l’intruso, farebbe cadere il suo interesse proprio sulla DEA che per il terzo anno consecutivo centra l’obiettivo Europa con bilanci in ordine. Un particolare che stride fortemente con quello che è la normalità delle due grandi città del calcio italiano, dato che sono riuscite a beccare l’obiettivo con passivi economici importanti. La Juventus, per fare un esempio, ha ricapitalizzato circa 300 milioni di euro un anno e mezzo fa e ora si ritrova con un buco di quasi 400 milioni di euro. L’Inter ha vinto invece il campionato con un passivo di circa 380 milioni di euro, mentre il Milan è riuscita a tornare in Champions con un debito di poco superiore ai 100 milioni di euro. Beh, direte dove il collegamento tra calcio e società? 
Semplice, nel fatto che le regole si piegano, si plasmano e si modellano, assumendo una forma che meglio favorisce le aree storicamente più forti rispetto a quelle deboli. Perché se nel calcio la conservazione dello status quo viene perseguita principalmente attraverso la capacità di indebitarsi a dismisura senza fallire. Nel Paese reale gli scontri tra Centro e periferia e quello più specifico Nord-Sud, sono tutti fomentati mediante l’alterazione di un importante principio costituzionale: quello dei livelli essenziali delle prestazioni che viene perseguito senza tenere conto delle reali necessità, ma bensì della “spesa storica”. Esempio: supponiamo che due comuni (uno al nord e uno al sud) abbiamo entrambi quattro anziani non autosufficienti. Al Nord era stata predisposta l’assistenza, nel comune del Sud no. E qui entra in gioco la variabile impazzita, per cui chi è “storicamente“ abituato ad avere meno servizi ha, automaticamente, un fabbisogno minore. Morale: il gruzzoletto invece di essere suddiviso in parti uguali, sarà dato in gran parte ai due anziani del comune del nord, perché quelli del sud sono “avezzi” a spendere meno. Un paradosso per il quale se sei povero è giusto che continui ad esserlo. E se non c’avete fatto caso, siamo arrivati dritti alla statistica di memoria calcistica che ci dice che la mela che non cade mai troppo lontana dai centri di potere. Con un’unica differenza: se nel calcio il Super Legua è mestamente tramontato, nella vita reale il progetto vive e lotta insieme a noi. Si chiama Federalismo differenziato e si farà. Lo dice il pallone, che sulle sorti del Paese è una sfera che non sbaglia (quasi) mai. 
 



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