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Yasmin Tailak

Studentessa italo palestinese

Palestina: la finta tregua per zittire le coscienze

Il 20 Maggio, dopo undici giorni di inferno, viene concordato un cessate il fuoco che spegne per un po' la frenetica e ansiogena attenzione sulla Palestina. Niente più prime pagine, niente più titoloni in cui si mistifica il reale capovolgendo i rapporti di forza tra occupante e occupato, nessun politico che sceglie di cantare l'inno di Israele sotto la bandiera della forza geopolitica più brutale della modernità. Di questo, bisogna ammetterlo, non si sente una gran mancanza. Sembra sia finita così, e piano piano si spengono i riflettori, le luci si abbassano, e la Palestina torna a vivere, in quella che il mondo chiama 'tregua', la sua dolorosa e duratura normalità. Dopo un effluvio di notizie, articoli, saggi, videoclip e fotografie è diventato difficile scoprire cosa sta accadendo lì, perchè la realtà è che quella che è stata stabilita sei giorni fa non è una tregua ma la semplice ritirata dal palcoscenico per proseguire la tragedia altrove, in sordina.

Ora la guerra ai palestinesi non si fa più con missili e bombe pirotecniche, con le luci sparate nel buio di Gaza, con le traiettorie letali che fanno corrispondere a ogni lampo un boato e a ogni boato un edificio raso al suolo, piegato su se stesso e su chi era al suo interno. La violenza dell'avamposto democratico in Medio Oriente prosegue, ma nelle strade di Gerusalemme, nei vicoli delle città arabe di Israele, e ancora, come all'inizio, nelle moschee. Non più bombe, ma arresti di massa, proiettili, soprusi fisici. L'operazione ora si chiama 'legge e ordine', e centinaia sono gli arabo-israeliani arrestati negli ultimissimi giorni per aver partecipato alle proteste contro gli sfratti di Sheikh Jarrah e contro le prepotenze dei coloni israeliani, protetti dell'esercito e dalla polizia. Ah, la democrazia.

Legge e ordine è un bel nome per un'operazione militare che viene eseguita in uno Stato che si proclama 'democratico' e che sulla legge e sull'ordine ha fondato la sua reputazione presso l'opinione pubblica occidentale. Israele è un Paese così ordinato e pulito. È così europeo. Nessun israeliano è simile a un arabo. Gli arabi sono sporchi, sono scuri, sono poveri e non hanno ordine. La ritirata dalla guerra a Gaza e la sua prosecuzione all'interno di Israele si può interpretare così: salvataggio di reputazione. Di fronte a una massiccia mobilitazione mondiale che si è – finalmente – indignata a grandi numeri per le crudeltà israeliane su Gaza, è possibile che fosse più facile mettere un freno alle violenze palesi e asimmetriche su quel piccolo territorio furibondo, e dedicare ogni sforzo all'imposizione di 'legge e ordine' sugli arabi che vivono non fuori, ma all'interno di Israele.

Attualmente si contano già più di millecinquecento arresti. Tra questi rientrano persone che stavano intraprendendo raccolte fondi per aiutare i duemila feriti di Gaza e la ricostruzione della città, ridotta a polvere e macerie; bambini, e persone che protestavano. Forse la democrazia sionista si è dimenticata che la protesta è, in effetti, un elemento chiave del concetto stesso di democrazia, però insomma minuzie. E minuzia su minuzia si costruisce la segregazione etnica dei palestinesi, a cui contribuisce non solo la forza ferina delle istituzioni militari, ma anche l'arbitrarietà delle più violente e umilianti azioni che ogni giorno i civilissimi coloni israeliani perpetrano nei confronti dei loro vicini di casa arabi. Pestaggi, sputi e insulti sono pane quotidiano per chi vive ad Hebron, Nablus, Gerico, nei Territori Occupati e nella Cisgiordania tutta.

Nessuna tregua, dunque, dalla condizione di essere palestinese. Quando le tende si chiudono sulla ribalta è dietro le quinte che continua la guerra. Ogni ora, ogni giorno, per tutta la vita. E quando, al prossimo atto di incredibile violenza il mondo fingerà di essere sorpreso, 'ma come, di nuovo violenze in Palestina?', bisognerà ricordare, ogni ora, ogni giorno, che per i palestinesi la violenza è una condizione perpetua, senza soluzione di continuità, su cui solo pochissime volte ogni tre o quattro anni si apre uno spiraglio affinché tutti possano vedere ciò che accade in quello straziato fazzoletto di terra su cui questi martiri hanno avuto la fortuna e la disgrazia di nascere.
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