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Elena Hileg Iannuzzi

Laureata in Storia

Attivista, esperta in sistemi di empowerment sociale e rigenerazione urbana.

1921 – 2021. 
Il centenario della scissione di Livorno
Ripensando a Gramsci e Matteotti

Corre il centenario della scissione di Livorno, e con ciò si moltiplicano le memorie del doloroso divorzio tra la famiglia del socialismo e quella del comunismo in Italia. Due componenti strutturali del paesaggio politico, a radicamento sociale differenziato e dotate entrambe di una precisa fisionomia organizzativa e ideologica, fortemente identitaria.
Due famiglie sorte nell’alveo del poderoso lavoro teorico e analitico di Carl Marx, e dal sudore nel fango delle lotte operaie ottocentesche, laddove nelle prime forme di lotta sociale, mutualismo e sindacalismo, queste due strade, quali sentieri segnati in nuove mappe della cittadinanza politica, si intrecciavano a quelle del movimento anarchico. I primi barellieri di Massa Carrara, primordiale forma di mutuo soccorso sindacale in Italia, furono infatti rosso/neri, come Sacco e Vanzetti. Una storia di conflitto sociale, in città ma anche rurale (in un Paese profondamente agricolo fino alla seconda metà del secolo successivo), che avrà un riflesso anche nell’imponente fenomeno dell’emigrazione italiana all’estero, intesa come emigrazione politica, che lascerà profondi segni fin dentro il XX secolo (senza nemmeno scomodare gesta eroiche come quelle di Garibaldi). 
Il Partito Operaio Italiano nasce a Milano nel 1882 e la sua rivista si chiamava “La plebe”. Riuscirà a far eleggere in Parlamento nello stesso anno Andrea Costa, primo deputato socialista della storia italiana. Dieci anni dopo a Genova il PO confluiva con l’appoggio di Turati nel Partito dei Lavoratori Italiani, il quale mutava il nome a Reggio Emilia nel 1893 in Partito Socialista dei Lavoratori italiani , per diventare solo nel 1895, a Parma, Partito Socialista Italiano.  
A Parma, che nell’estate del ’22 resisterà gloriosamente sulle barricate “in difesa delle libertà politiche e sindacali” al fascismo d’assalto. A Reggio Emilia, che diventerà il capoluogo simbolo del buon governo “rosso” nel regionalismo del secondo dopoguerra. A Genova, epicentro della rivolta che farà cadere nel 1960 il Governo Tambroni, non meno feroce nella repressione dei dimostranti di quanto non fosse Bava Beccaris. Queste sono le città teatro di una politica che a Roma approderà nella stagione giolittiana delle riforme liberali, apportando norme che legalizzeranno le prime Camere del Lavoro, i primi sindacati operai e le prime forme assicurative del lavoro (di matrice bismarkiana). Riforme varate sulla spinta di questa pressione sociale in buona misura raccolta dai parlamentari socialisti, ma agitata socialmente in gran misura da un sindacalismo rivoluzionario. 
La dialettica interna all’organizzazione dei lavoratori in Italia, che partecipò e fondò la Seconda Internazionale nel 1889 a Parigi , non fu priva dunque di forti contrasti fin dalle sue origini. Prima nel processo di soggettivazione (e separazione) tra movimento socialista e movimento anarchico, poi nella polarizzazione tra gradualismo e massimalismo, tra riformismo e rivoluzione, tra socialismo progressivo e comunismo. In questo quadro si deve e si può interpetare il nocciolo della questione e il senso politico profondo della “scissione di Livorno”, che poi costituisce il 14mo Congresso del Partito Socialista Italiano.
Scissione che si realizza in una fase storica in cui i socialisti, ormai forza parlamentare in uno Stato monarchico, censitario e anche corrotto, erano già coinvolti nella contrattazione sociale sul piano istituzionale (con obiettivi salariali e del suffragio universale), erano già stati interventisti nella prima guerra mondiale ed erano al governo di importanti capoluoghi. Livorno nel 1921 era tra questi. Città portuale bersaglio di un feroce squadrismo d’assalto, che indusse il suo Sindaco socialista a chiedere proprio per questo nella sua città si tenesse il Congresso, certo non immaginandone gli esiti.
Una scissione realizzata sulla spinta della rivoluzione bolscevica in Russia, promossa dalla componente che darà i natali al Partito Comunista d’Italia inquadrato nella Terza Internazionale. Rivoluzione sovietica che impartì alla storia della civiltà europea una svolta epocale interpretabile, quale cesura storica, al pari della Rivoluzione borghese del 1789. Se la “rivoluzione francese” riuscì ad abbattere l’Ancien Régime (benché provvisoriamente, ma come punto di non ritorno), mettendo al centro i diritti del cittadino e la società del lavoro contro il sistema della rendita aristocratica, la “rivoluzione russa” costituì nella materialità dei fatti il primo esperimento concreto e collettivo di Socialismo “reale”, mediante l’uscita unilaterale dalla prima guerra mondiale e l’istituzione del laboratorio di un governo proletario, la cosiddetta Dittatura del proletariato. Per capire la temperie di quell’epoca, questo aspetto non può essere marginalizzato.
Tecnicamente la scissione di Livorno realizzata nel centralissimo Teatro Goldoni vide la partecipazione al voto di 98.000 delegati. 58.783 votarono la mozione comunista, 14.000 quella socialista. L’area di Togliatti, Terracini, Bordiga e Gramsci abbandonò la sede congressuale in corteo per riconvocarsi nel teatro periferico San Marco. Il servizio d’ordine della manifestazione vedeva schierata tutta l’organizzazione livornese insieme agli Arditi di Trieste. Il 90% della Federazione Giovanile del Partito Socialista Italiano abbandonava la casa madre. Al San Marco si celebrava così la fondazione della Sezione italiana della III Internazionale (alla presenza dei suoi delegati esteri) che nel gennaio 1926 a Lione assumeva la tesi gramsciana “facciamo come in Russia”. Era la risposta al socialismo evoluzionista, al pragmatismo economicista e al riformismo amministrativo di un PSI oramai definitivamente travolto dalla violenza fascista.
Questo anniversario è invece attraversato da una pletora di iniziative culturali e memorialistiche, polarizzate tra la tendenza storica alla rottamazione di un’ideologia (e con ciò di un’epoca), e la tensione nostalgica (e apologetica) di converso. Entrambe impostazioni che difficilmente intercettano l’attualità della memoria di quel passaggio cruciale nella storia umana, di classe e dello Stato, per quel che ci lascia in eredità e per i nodi gordiani, irrisolti, che ci consegna. Nodi storici ma anche, e soprattutto, politici.
Nodi tra cui possiamo certamente annoverare la “vexata quaestio” del rapporto con la Rivoluzione d’Ottobre, come abbiamo accennato, legata alla genesi del Partito comunista. Genesi che lo storico Canfora nella sua periodizzazione posticipa invece, ponendo nel 1944, anno della svolta di Salerno , la “vera” fondazione della “via italiana” al comunismo intesa come prospettiva democratica e di definitivo abbandono dell’idea rivoluzionaria che aveva caratterizzato il ventennio precedente del PCd’I.
E questo ci porta al nodo della divaricazione tra le opzioni gradualista e rivoluzionaria come metodo della trasformazione sociale, divaricazione interna ad una medesima soggettività, di fondo , su cui peraltro insiste ampia letteratura politica (di fase e dottrinale), prolifica fino alla seconda metà degli anni Settanta, anche esternamente al mondo dei Partiti costituzionali. Dialettica che fa risalire le sue radici morali ed etiche nella complessità dello stesso processo politico risorgimentale italiano, dove le sinistre, con diverse correnti teoriche, ebbero un ruolo cruciale organizzate in Massonerie. 
Questo aspetto della “crisi del riformismo” è di inevitabile attualità, proprio oggi che si accompagna agli interrogativi sulla “crisi della democrazia”, sulla perdita di sovranità degli Stati di fronte a nuove istituzioni, globali o private multinazionali, sul collasso dei corpi intermedi di rappresentanza nella contrattazione collettiva a fronte di nuove forme di organizzazione sociale. Una crisi che resuscita le aspirazioni alla palingenesi sociale e lo spirito messianico di un certo tipo di comunismo originario, che si travasò anche nel secondo dopoguerra nelle attese di “baffone”, soprattutto nel nostro sud contadino che ancora al Primo Maggio della strage di Portella delle Ginestre non aveva visto la riforma agraria.
Poi sussiste non da ultimo in ordine di importanza, il nodo gordiano della riunificazione delle soggettività componenti il frastagliato arcipelago socialista, nelle sue diverse declinazioni, forse ancor più urgente oggi di fronte a un “sovversivismo della classe dirigente” (per dirla con Gramsci) del tutto sganciato dalla presenza di lotte di classe (cioè inteso come “reazione” per parafrasare Turati), ma frutto della nuova fase di accumulazione capitalistica, che vede emergere un rampante capitale finanziario pronto a rompere il precedente patto sociale. 
Ricomposizione dunque in “blocco storico” (ancora Gramsci) delle sinistre, per alcuni matura al tempo della svolta della Bolognina (con la dissoluzione del PCI) come forma di fusione di gruppi dirigenti, per altri come tentantivo di autentico rinnovamento e attualizzazione del messaggio marxista, ovvero come ricomposizione delle diverse soggettività che compongono la sinistra, politica e sociale, tentato per esempio con SEL (Sinistra Ecologia Libertà) nella convergenza di quadri e militanti dall’ex PCI e dall’ex PSI, ma anche da esponenti provenienti dai Verdi e dai movimenti sociali della “nuova sinistra” e dell’associazionismo. Questi ultimi due segmenti altrimenti inquadrati, benché forze laiche, in quel concetto tutto cattolico e codificato nei Patti Lateranensi di “sussidiarietà sostitutiva” dello Stato. Un passo ulteriore rispetto al semplice “partito del lavoro”, nella direzione del protagonismo sociale delle masse popolari.
Emerge dunque, anche sommariamente e di primo acchito, come un quadro tanto articolato richiederebbe uno sforzo di ricerca storica rigorosa da una parte, e più direttamente analitica dal punto di vista politico dall’altro, ricerca fin’ora surclassata da approcci ideologici soggettivisti di un ceto politico più impegnato ad autoriprodursi, e con ciò salvarguardarsi dall’estinzione che la “fine della storia” di Fukuyama gli aveva affrettatamente assegnato, piuttosto che autenticamente engagé nell’aprire una seria riflessione storica e critica sul sé. In queste more insiste la continuazione della stessa battaglia fratricida a sinistra (con rispettive scomuniche e veti incrociati) che, a ridosso dell’ascesa del fascismo in Italia, nel pieno di un clima arroventato prima dalle lotte operaie e contadine del biennio rosso e poi dalla violenza squadrista, ha prodotto cento anni fa la “scissione” di Livorno.
La periodizzazione di Canfora, che fa risalire la “vera” fondazione del Partito Comunista a Napoli con l’intervento di Togliatti al “Modernissimo”, è fatta propria da gran parte degli ex quadri dirigenti partitici e sindacali, avendo il duplice vantaggio, semplificatorio, di liquidare nella memoria collettiva le criticità esplose nel Congresso del 1921 da una parte nei termini di una semplice “bolscevizzazione” di parte comunista (ottica prevalentemente socialista), dall’altra di affermare il ruolo “egemonico” (di conio gramsciano) del soggetto comunista, emerso durante la cladestinità e nell’organizzazione della Resistenza al nazifascismo, e manifestato a partire proprio dall’organizzazione degli scioperi operai del ’44. 
La realtà è che “il rubicone” attraversato da Togliatti con la svolta di Salerno, sarà la premessa alla maturazione - nel clima post bellico di pieno dispiegamento della democrazia parlamentare - del PCI da partito di quadri e avanguardie (radicato prevalentemente nelle grandi città) a partito di massa (organizzato su scala nazionale) anche in grazia della riorganizzazione dei sindacati operai. Su questa via il PCI diventerà il “più grande partito comunista d’occidente” e la CGIL il più grande sindacato operaio d’Europa. 
Troppe le commemorazioni che non calano la propria interpretazione storica nel quadro politico in cui si collocava il Partito socialista nel 1921, poche quelle che focalizzano adeguatamente l'impostazione ideologica raccolta attorno al riformismo Turati e ai “soviet” di Bordiga , poi culminata nel Congresso di Lione (1926) con l’elezione di Gramsci a segretario. Parimenti trascurato è il passaggio tra il 1921 e il 1926, liquidato sbrigativamente come “lotta intestina” al PCd’I. Ma che in realtà costituirà la base per la fase successiva, quella tra il 1926 e il 1944, dove la “tenuta organizzativa” del partito in clandestinità consentirà una continuità politica preclusa ai socialisti (ridotti alla diaspora e all’esilio allorché posti “fuorilegge”) e mediante il radicamento sociale nel mondo operaio della grande fabbrica (pagato al prezzo altissimo della persecuzione giudiziaria, della tortura, dell’esilio, della deportazione nei campi di concentramento), dove troverà le riserve necessarie all’organizzazione della lotta di liberazione. E’ infatti da questa presenza nelle fabbriche (e dalla strategia retrostante gli scioperi e la parola d’ordine del sabotaggio) che poi si verificherà il travaso di quadri e militanti nella Resistenza armata all’occupazione nazista e al regime di Mussolini.
Egemonia e identità nazionale dunque, sono due concetti chiave per interpretare questa storia, anche a dispetto del vessillo internazionalista sventolato fin dalle origini della “Patria del lavor” , e che diventeranno le due gambe sui quali viaggerà il “Partito Nuovo” (caro a Canfora) di Togliatti. Partito che portò i suoi ministri nel governo Badoglio, fu presente nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), innervò sul territorio la Resistenza al nazifascismo, e condurrà poi, con Berlinguer, in una fase successiva ma non meno decisiva di “unità nazionale”, alla scelta del “compromesso storico” con la DC, passando prima per l’aministia del 1947, per la linea favorevole alla duplice sovranità Stato italiano – Città del Vaticano in sede costituente (Art. 7) e per la ratifica dei Patti Lateranensi (1985), cui, va pur detto, solo i socialisti trovarono la forza e il rigore etico di opporsi.
Sulle strade della “via italiana al socialismo” troveremo dunque sia il PCI con la sua scelta di rinunciare alla rivoluzione per contribuire fortemente, a partire dalla fase costituente, a codificare un modello di Stato sociale democratico, per dirla con JP Morgan “socialisteggiante” , con il suo forte radicamento sociale nelle lotte operaie (e il movimento dei Consigli di fabbrica), con il suo profondo lavoro di educazione alla democrazia e alfabetizzazione politica delle masse, con il suo allenamento alla cittadinanza attiva e la sua ampia capacità di mobilitazione sociale (cruciale nei momenti più bui della storia repubblicana, come per esempio dopo la strage di piazza Fontana quando in Italia si udiva “stridor di sciabole” , e la mobilitazione in difesa della democrazia fu imponente), ma troveremo anche il PSI, con la sua scelta di governo (essenziale dopo la seconda Grande Guerra, una volta espulso il PCI dall’esecutivo in seguito al viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti), protagonista delle principali battaglie parlamentari che produrranno le grandi riforme del secondo dopoguerra: dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica al divorzio, dalle politiche di edilizia pubblica popolare allo Statuto dei Lavoratori, dalla riforma della Scuola Media (e il superamento del binario differenziato con l’avviamento professionale) al Servizio Sanitario Nazionale, primo vettore dell’implementazione di un sistema regionale in Italia, e primo esperimento al mondo di servizio sanitario universale capillarmente organizzato sul territorio, a dispetto di chi attribuisce tale primato a Beveridge.
Un buon motivo, anzi più, per far smettere di litigare Turati con Terracini, Gramsci con Matteotti.

Nota: La presente riflessione storica, senza alcuna pretesa di esaustività, si limita a proporsi di costituire uno spunto per l’avvio nuove e ulteriori ricerche, ovvero come traccia di studio che apra a un’analisi più ampia di una problematica così importante, e controversa, della storia della sinistra in Italia. 




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