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Paolo De Martino

Attivista politico

Il Lavoro al centro di ingiustizie sociali

In questi giorni sono uscite due notizie sulla Campania che hanno catturato la mia attenzione. La prima indicava la Campania come la regione più povera d’Europa, secondo i dati ufficiali dell’indagine dell’Eurostat. L’ennesima statistica che conferma la Campania come fanalino di coda in Italia e in tutto il vecchio continente anche per il numero considerevole di persone che lasciano la regione. La seconda news appartiene a quelle dalla narrativa mistificata ma che offre una lettura speculare: “Imprenditore napoletano non trova operai”. Nel sottotitolo si faceva riferimento al fatto che i lavoratori preferiscono il reddito di cittadinanza anziché cercare lavoro. Certo che lo preferiscono. Di recente una mia amica mi raccontava di aver avuto una proposta di lavoro come cassiera in una nota catena di supermercati, il salario era di 600 euro mensili per un lavoro full time. Io, qualche mese fa, ho avuto un’offerta di lavoro attinente al mio percorso lavorativo e formativo, con una mansione di grande responsabilità con turni infiniti e il massimo che mi potevano offrire era meno di mille euro. In Italia, nello specifico in Campania, è difficile per i giovani trovare lavoro, per chi lo perde diventa arduo il ricollocamento. 
Non esiste un mercato del lavoro e le retribuzioni sono anacronistiche.

I due articoli apparsi in questi giorni su testate nazionali fanno emergere ancora una volta quanto il lavoro al Sud sia la priorità assoluta. Una questione che è stata banalizzata dalla propaganda politica ma che diventa sempre più indispensabile da affrontare. 

Quando si parla di lavoro, per l’immaginario collettivo, si tratta della mancanza del “posto di fatica”. Invece è un insieme di tante cose: salari, forme contrattuali, conciliazione familiare, tutele, formazione, offerta, opportunità, per citarne alcuni tra i pilastri. In Italia vengono disonoratamente chiamate Politiche del Lavoro. Sulla pagina ufficiale dell’Anpal si trova anche un’ampia scelta di prestazioni: “I servizi e le misure di politica attiva del lavoro sono interventi volti a promuovere e favorire l'occupazione (inserimento/reinserimento lavorativo) e l'occupabilità (migliore spendibilità del profilo della persona e maggiore vicinanza al mercato del lavoro) di chi cerca lavoro”. Cioè praticamente tutto ciò che non funziona. Una vergogna. 

Cosa succede in Campania quando si perde il Lavoro?

Bene, hai perso il lavoro, ti spetta la disoccupazione. Sempre se sei tra i fortunati che hanno avuto un contratto superiore ai 6 mesi e dimostri di avere versato contributi negli anni precedenti alla perdita attuale del lavoro. Questo è il primo ostacolo a cui va incontro il lavoratore appena licenziato. La seconda difficoltà è la ricerca di un nuovo lavoro. Andare al collocamento, ribattezzato inutilmente in “Centro per l’impiego”, è un’offesa alla dignità del lavoratore: non funzionano. Sembrano uffici comunali anni ‘80 del Sud italico. Non esiste una banca dati, gli uffici non dispongono di sistemi digitali adeguati al mercato del lavoro. I dipendenti di questi uffici sono tanti, non sono formati e non hanno strumenti in grado di svolgere il proprio lavoro e spesso vengono additati come responsabili per il malfunzionamento degli uffici. A questo si sono aggiunti i navigator che dovevano migliorare la situazione, invece, è tutto il sistema a non funzionare. Non esiste neanche un processo di formazione per chi perde il posto di lavoro. L’assegno di disoccupazione dura per un massimo di 24 mesi. Ogni mese diminuisce fino alla miseria, cioè quello stato di indigenza che non ti permette di arrivare a fine mese, ma che svilisce la tua professionalità e lede la tua dignità morale e sociale. I tanti che percepiscono sostegni al reddito, se non trovano un lavoro stabile, sono costretti ad arrotondare facendo lavori a nero, perché nella migliore delle ipotesi gli assegni dei sussidi non arrivano a mille euro. Mettiamo il caso che tu non voglia arrotondare perché magari non hai una famiglia, ti basta quella somma per tirare avanti, ti costringono a restare intere giornate “sul divano”. Ricorderete le campagne “antidivanisti”. Come se al disoccupato facesse piacere vedersi passare davanti il futuro, mentre comodamente guarda la Tv. Io, nei lunghi mesi di sopravvivenza da disoccupazione, non ho ricevuto nessuna chiamata per un corso di formazione, magari mi sarebbe servito per ampliare le mie conoscenze e formarmi per un nuovo lavoro. Niente. Non esistono percorsi seri di reinserimento lavorativo. I canali per cercare lavoro sono portali di agenzie private del lavoro, portali settoriali (pochi) o piattaforme online dove trovi lavori sottopagati talvolta anche pubblicizzati senza pudore. L’Istat attesta che il 55% degli italiani trova il lavoro attraverso amici o parenti. Che tristezza! 

Il reddito di cittadinanza non può e non deve essere la risposta alla mancanza di un sistema lavoro che racchiuda opportunità e sostegno al reddito, insomma le politiche attive del lavoro in Italia sono fai da te. Non tutte le persone che perdono l’impiego, soprattutto in età adulta, hanno gli strumenti per rimettersi in gioco e convertire la loro professione. 

Attualmente, per come sono concepiti e sviluppati i sussidi esistenti, questi sono dei meri strumenti di assistenzialismo perché, con numeri alla mano, queste misure non hanno creato posti di lavoro. 
Ora che con l’avvento di Draghi si è conclamato il fallimento dei partiti, è possibile ammettere che questo Paese ha bisogno di una vera e propria riforma del lavoro in una prospettiva di crescita? Non solo economica ma anche di qualità della vita, misurata attraverso i servizi come asili nido, uffici funzionanti, ammortizzatori sociali, percorsi di formazione spendibili nel mercato del lavoro. In queste ore la discussione è sulla competenza dei ministri. Un argomento che è diventato stucchevole perché le scelte del governo, di qualunque forma, sono politiche. I ministeri sono pieni di tecnici competenti e qualificati, è mancata la visione politica. Il lavoro è una questione politica. Un’auto senza motore non parte, anche con il miglior pilota. Prima di qualsiasi scelta politica bisogna sistemare la macchina burocratica. Ma è inevitabile che una riforma del lavoro dovrà prevedere anche la riformulazione dei contratti nazionali e l’introduzione di un salario minimo garantito adeguato. L’INAPP, ente pubblico di ricerca, che svolge analisi, monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro e dei servizi per il lavoro e la formazione, ha di recente fatto uno studio sull’impatto migliorativo circa l’introduzione di un salario minimo, tale documento è stato anche presentato il mese scorso alla Commissione alle politiche dell’unione del Senato. Certo la proposta dell’INAPP dimostra che è diventato indispensabile aumentare il reddito dei lavoratori, ma a questo va accompagnato una diversa fiscalità per i datori di lavoro che non sempre sono multinazionali o aziende statali, ma piccoli imprenditori attanagliati da burocrazia e costo del lavoro molto alto e che sono costretti ad assumere i dipendenti con forme contrattuali a breve durata oppure con contratti a tempo indeterminato part time ma chiedendo al lavoratore di svolgere molte più ore e con più responsabilità a stipendio ridotto. Uno studio fatto dal Ministero del Lavoro “Il mercato del lavoro 2019” indicava una crescita esponenziale di contratti a riduzione oraria. Bisogna anche ampliare la platea degli ispettori del lavoro, basti pensare che sono solo 6.046 in tutta Italia, i quali sono adibiti a tutti i controlli: la prevenzione, l’irregolarità e il contrasto al lavoro nero, le frodi relative alle misure di sostegno al reddito ecc. Un lavoro intensissimo anche e soprattutto sull’uso del RDC che comporta controlli sul corretto utilizzo dell’ammortizzatore sociale per contrastare atteggiamenti fraudolenti nei confronti delle risorse pubbliche. Questo significa che i controlli sono calati: in Campania nel 2019 circa 50mila lavoratori hanno operato in grigio o in nero,
Non bastano più slogan o nuove nomenclature. Non servono sussidi senza una vera innovazione sistemica. Draghi saprà rimediare al fallimento decennale delle politiche per il lavoro? E lo farà in chiave liberista? 
Inoltre, il problema dell’occupazione non riguarda solo chi esce dal mondo del lavoro ma risulta difficile soprattutto per i giovani che cercano il loro primo impiego, molti si arrendono. I dati dell’Istat circa i neet sono allarmanti. L’Istat traccia un quadro cupo per le nuove generazioni in cerca di lavoro. Se si legge il rapporto dell’autunno scorso, si capisce che al Sud la situazione è disastrosa, il 48% dei giovani è inattivo. Cioè non studia, non si forma e non lavora.
Bisogna superare quell’atavico modello economico-sociale da dopoguerra e farsi carico di una questione politica fatta di giustizia sociale che si occupi delle difficoltà che gli italiani affrontano nel mondo del lavoro, dell’istruzione, dei servizi, dell’assistenza sanitaria, del bisogno economico e adotti le soluzioni per risolverli. Si emigra anche per una migliore qualità di vita. 
A questioni ereditate da una non-gestione delle politiche del lavoro, si aggiunge la fase emergenziale. Il 31 marzo le imprese potranno tornare a licenziare. La UIL ha stimato che, nel giro di pochi mesi, 2 milioni di italiani potrebbero perdere il posto di lavoro. Nel 2020, nonostante le protezioni sociali quali blocchi di licenziamento e CIG, 500mila persone hanno perso il lavoro, 100mila solo nel mese di Dicembre, penalizzando maggiormente le donne.
Qui non c’è da mangiare popcorn o da stare sereni. Bisogna stare in guardia. Il futuro, mai come ora, è adesso. 
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