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Rosetta Ferra

Attivista politica 

Il lavoro, lo smart working e le donne. Quando il futuro è un ritorno al passato.

Lo scorso 11 marzo, il governo ha presentato il pacchetto per fronteggiare la pandemia. In quella occasione, il ministro dell’Economia Gualtieri ha promesso che nessuno avrebbe perso il lavoro a causa del virus. I dati diffusi dall’Istat sull’occupazione di aprile però lo hanno smentito, dimostrando che il lockdown ha avuto un effetto disastroso per il mondo del lavoro.
La gestione della pandemia è stata un fiorire di esperti, tecnici e commissioni che hanno evidenziato subito il problema che le composizioni delle cosiddette "task force" non rispettavano in alcun modo le quote di genere di almeno il 30% di presenza femminile.
Le "quote rosa" sono necessarie in un contesto patriarcale come quello in cui viviamo ancora oggi ma non bastano a risolvere alcun problema (figurarsi quello della disoccupazione femminile che è ancora al 50,5% e considerato che il 30,4% delle disoccupate nella fascia d’età 45-74 anni non ha mai avuto esperienze di lavoro nella propria vita - cosa che per gli uomini accade solo nel 3,8% dei casi).
Infatti, gli interventi previsti per potenziare il lavoro femminile si rivelano spesso insufficienti e inefficaci, oltre al fatto che molte volte sono rivolti a chi un lavoro lo ha già e continuerà probabilmente ad averlo. In un momento di gravissima crisi come quello che stiamo vivendo, in cui si ipotizza che 500mila persone perderanno il lavoro, sarebbe stato più ragionevole un potenziamento degli sgravi fiscali per chi assume donne disoccupate o forme di sostegno al reddito come il reddito di autodeterminazione. Sarebbe stato più opportuno essenzialmente non limitarsi a parlare di conciliazione familiare.
Si tratta di un argomento centrale che va affrontato senza rassegnarsi al cliché che il lavoro di cura sia il destino di ogni donna. Si parla molto di asili nido e di servizi alle famiglie ma poco o nulla di cogenitorialità o corresponsabilità. C’è un accenno all'estensione della durata dei congedi di paternità, ma l’impressione è che sia la madre a doversi comunque occupare della gestione della famiglia e dei figli.
Il ricorso massiccio allo smart working, che avrebbe dovuto consentire una migliore conciliazione dei tempi tra vita privata e impegni professionali, non ha trovato raffronto nella realtà italiana, dove è ancora troppo penetrante la visione che delega alle sole donne la gestione della casa e degli impegni familiari. Una delle conseguenze è che, se il numero di posti di lavoro diminuisce, sono le donne – le madri in particolare – a doversi fare da parte per prime.
Nelle misure varate finora dal governo per fronteggiare la crisi, pesa la mancanza di progetti di largo respiro in grado di includere le donne e i giovani nel mercato del lavoro. Lo smart working rimane agganciato a una logica emergenziale costringendo i lavoratori a controllare ossessivamente gli strumenti aziendali in attesa di una email o di una telefonata, smentendo di fatto il diritto alla disconnessione. Il lavoro agile doveva essere lo strumento del futuro, ma il cumulo di attività domestiche e professionali sulle spalle di molte lavoratrici lo rende decisamente un tuffo nel passato. Il racconto dello smart working all’interno della pandemia è ben diverso dunque e fa parlare di “ritorno agli anni Cinquanta” .

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