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Iacopo Di Girolamo 

Filmmaker


Il mio primo film espressionista. Il gabinetto del Dottor Caligari.

High Wycombe, Inghilterra. Febbraio 2002.

All'epoca era uno studentello ventenne al Buckinghamshire Chilterns University College, impegnato con passione al secondo anno del corso di cinema e produzione video. I nostri professori avevano organizzato i corsi con intenzioni sadistiche e ci avevano piazzato la proiezione del primo dei tre film settimanali alle 9,30 di lunedì mattina, quando noi studenti stavamo disperatamente cercando ricovero dai weekend di bagordi anglosassoni. Inutile descrivere come la piccola aula-cinema dell'università si trasformasse in un dormitorio pubblico, coccolati da luci spente e comode sedie pieghevoli in legno scarabocchiato.

Ricordo che era una mattina invernale quando, prima di uscire di casa, controllai il film che ci aspettava quel giorno: Il gabinetto del Dottor Caligari (Germania, 1920. 74'). Il mondo mi crollò addosso. La disperazione di dovermi sorbire un'ora e un quarto di un film muto, tedesco, in bianco e nero, dopo aver bevuto ettolitri di birra per tutto il fine settimana era paragonabile alla prospettiva di organizzare un trasloco con un'infiammazione al nervo sciatico e sotto effetto di Xanax.
Avevo appena poggiato la borsa sul banco pronto a un minimo di sonno indisturbato, quando partirono i titoli di testa. Forme curiose come esplosioni e lampi a zig-zag accompagnavano il rullo di un inedito font iper-stilizzato ed evidentemente realizzato a mano. Dopo qualche breve fotogramma nero, un'apertura a cerchio. Due uomini nel cortile di quello che sembra un istituto di igiene mentale parlano di una vicenda incredibile accaduta al più giovane dei due. Nello stesso cortile si aggira un'enigmatica figura femminile che sembra un fantasma. Da quel momento in poi il ritmo del film accelera sempre di più, l'estetica sempre più inquietante, esasperata, claustrofobica, innaturale, tra ambienti distorti, mostri, assassinii, oggetti di uso comune presentati con forme inusuali e sproporzionate. Il tutto chiaramente dipinto su tele e quinte, con gli attori talmente stilizzati che sembrano anche loro disegnati. Poi, all'improvviso, un'epifania: è un film horror! Forse il primo film horror della storia?
Mi spostai dall'ultimo banco fin quasi alla prima fila. Non disturbai nessuno perché tutti i miei colleghi stavano ronfando della grossa. Il resto del tempo lo passai a occhi spalancati ad osservare maniacalmente quella follia, che in qualche modo mi servì come cura dal mio hangover. Quando il film finì, con una chiusura a cerchio sul volto pensieroso del mutato Dr. Caligari (prima burattinaio di un sonnambulo assassino e infine rispettabile medico di un istituto psichiatrico), mi resi conto di essermi innamorato di quel film. Quella pellicola sbiadita che, ancora oggi, quando mi chiedono la nefasta domanda “Qual è il tuo film preferito?”, merita di essere tirata fuori dalla mia testa attraverso le labbra senza pensarci più di tanto.

Sono passati diciotto anni da quando vidi quel film e ne sono passati esattamente cento di anni da quando Caligari fu proiettato per la prima volta il 26 febbraio 1920 al Marmorhaus di Berlino (oggi tristemente trasformato in uno Zara).

Durante i due decenni che sono passati da quando ho visto il mio primo film espressionista, le modalità cinematografiche moderne hanno avuto un'impennata tecnologica rapidissima. Dalle saghe del Signore degli anelli e Harry Potter, fino al più moderno Avangers, gli effetti speciali la fanno da padrona. Ma nel mondo dei 'blockbusters' tutto invecchia facilmente, soprattutto quello che sembrava il punto di svolta del cinema moderno, Avatar, che adesso ci sembra preistoria dall'estetica posticcia, passato facilmente nella scatola del dimenticatoio collettivo. Nel mio mondo personale, invece, ho cominciato uno studio approfondito delle tecniche di ripresa dei film da un passato a noi remoto. Tutti quei film che quando li vedi, ogni tanto, ti rendi conto del fatto abbastanza banale che tutti i loro protagonisti sono morti (e anche da parecchio tempo). Per trovare un sopravvissuto del cast di Caligari, per esempio, dobbiamo tornare indietro al 1980, anno in cui ci ha lasciati Lil Dagover, unica protagonista femminile di quel capolavoro. Ma Caligari è ancora lì e non decide di invecchiare e di morire. Anzi, lo ritroviamo in tante pellicole moderne. Praticamente l'intera filmografia di Tim Burton (e non solo) si rifà all'estetica di quel cinema, di quella breve parentesi storica della Repubblica di Weimar che siede, irrequieta, tra i due conflitti mondiali del Novecento. La pellicola di Caligari ha inoltre ritrovato nuova linfa vitale con l'avvento della digitalizzazione e del 4K grazie al laboratorio “L'immagine ritrovata” della Cineteca di Bologna, che nel 2014 l'ha restaurato riportando alla luce anche i colori originali del film. Eh sì, perché molti credono che i film in bianco e nero fossero tutti in bianco e nero, ma non è così. Soprattutto i film precedenti alla Seconda Guerra Mondiale erano tutti pensati in modo monocromatico: ogni scena aveva un colore dominante – quello che contraddistingue Caligari, per esempio, è il verde, ma furono utilizzati anche il blu (che solitamente serviva a sottolineare gli avvenimenti ambientati di notte) e il giallo (ambienti diurni). Anche io ero all'oscuro di questa faccenda dei colori nel 2002 e il primo DVD che comprai di quel film era ancora una versione sfocata in bianco e nero, orrenda, che ho lanciato fuori dalla finestra nel momento in cui mi è arrivato il BluRay della nuova versione restaurata e che tratto come un oggetto di culto.

Cos'è però che rende Caligari un film immortale a un secolo dalla sua uscita? Ci ho pensato parecchio negli ultimi anni. Sono arrivato addirittura al punto di girare io stesso un film espressionista (muto e monocromatico, dalla recitazione esasperata e di tema fantastico) per capirne le tecniche da utilizzare e che aria si respirasse sul set. Una delle cose principali che ho capito è che il set di un film muto permette un caos sonoro improponibile per un film parlato: non devi fermarti se passa un aereo, l'assistente alla macchina può starnutire durante una scena madre, il regista può e deve urlare indicazioni durante le esecuzioni. Ma questo non c'entra niente, è solo una soddisfazione personale per la buona pace di tutti i fonici di presa diretta. Sempre per cercare delle risposte mi sono recato più volte al Museum für Film und Fernsehen a Berlino, che ha un'ampia area dedicata al cinema espressionista, ma a parte apprendere tecniche, scoprire parecchi aneddoti interessanti e dilapidare il mio patrimonio in poster, BluRay e oggettistica varia nel meraviglioso shop, non ne sono mai uscito soddisfatto sotto quell'aspetto. Per rispondere alla domanda bisogna ritornare alla mia epifania in quel freddo lunedì mattina del 2002: è un film horror; il primo film horror della storia.
Ma dopo un po' anche questa risposta non basta, perché non è detto che il primo film horror della storia possa da solo tenere testa a tutti gli altri.
In seconda analisi, una cosa che mi affascina di Caligari, è l'elemento inafferrabile che contiene quella storia. C'è qualcosa che si nasconde sotto lo strato oramai digitalizzato di celluloide. Qualcosa che anche un ateo fondamentalista come il sottoscritto potrebbe descrivere come 'anima'. E quindi da dove viene l'anima di Caligari e, a questo punto devo dirlo, di tutti gli altri capolavori del cinema espressionista che magari affronterò in altri articoli come questo?
Avevo provato a non tirarli in ballo fino ad ora, ma questo è il momento in cui devono necessariamente venirci in soccorso i libri. Due in particolare, scritti da due studiosi del genere che avevano idee abbastanza diverse: Siegfried Kracauer (Da Caligari a Hitler: una storia psicologica del cinema tedesco – 1947) e Lotte H. Eisner (Lo schermo demoniaco – 1952).

Entrambi di origini ebraiche, con l'ascesa di Hitler furono costretti dapprima a fuggire a Parigi. Da lì, Kracauer riuscì a proseguire verso gli Stati Uniti, mentre la Eisner fu imprigionata nel campo di internamento di Gurs, nei Pirenei francesi, dal quale riuscì ad evadere.
Premetto che dei due flussi teorici, personalmente ritengo più affidabile quello della Eisner, semplicemente perché ha scritto il suo libro dall'Europa, sostenuta da Cahiers du cinéma e mantenendo un contatto diretto con i protagonisti di quel movimento, tra tutti l'immenso Fritz Lang (regista di Metropolis, Dottor Mabuse e M – Il mostro di Düsseldorf). Kracauer invece studiava e scriveva tutto da uno stanzino del Museum of Modern Art di New York, sponsorizzato (e deduco anche 'pressato a produrre') dalle fondazioni Guggenheim e Rockefeller, senza avere un contatto diretto con i fautori di quel cinema.
In entrambe le introduzioni dei libri, si parla di una Germania devastata dalle conseguenze della Prima Guerra Mondiale, in disperate condizioni socio-economiche e scossa da enorme confusione politica. La rivoluzione del novembre 1918 per Kracauer non fu una vera rivoluzione ma semplicemente la caduta delle forze al potere aiutata dalla rivolta dei marinai e di una popolazione stanca della guerra. In alcune descrizioni dell'epoca di Monaco e Berlino, aggiungo io, si parla di una folla di mutilati, fame diffusa, e gli artisti di una popolazione che ha dovuto assistere agli orrori più atroci del nuovo secolo (fino ad allora) dovevano cercare un modo di esternare tutto questo. La Eisner scrive:
 
L'ecatombe di giovani uomini caduti nel fiore della loro giovinezza sembrava nutrire la tetra nostalgia di quelli sopravvissuti. Nacque un nuovo stimolo della eterna attrazione verso tutto ciò che è oscuro e indeterminato. La riflessione speculativa che i tedeschi chiamavano Grübelei culminò nella dottrina apocalittica dell'Espressionismo. La povertà e la costante insicurezza spiegano l'entusiasmo con cui gli artisti tedeschi abbracciarono questo movimento sin dal 1910.

Quindi, l'idea generale della Eisner (e mi dispiace essere troppo sbrigativo) è che il cinema espressionista tedesco sia nato dall'orrore di quello che è stato. Un orrore proveniente da un passato molto vicino.
Dopo aver assorbito questa nozione è molto interessante leggere Kracauer che teorizza una cosa simile ma allo stesso tempo incredibilmente diversa: il cinema espressionista tedesco è nato dall'orrore di quello che verrà! Un orrore proveniente dal futuro, dal presagio dell'avvento di un tiranno mostruoso. Folgorante è il paragrafo conclusivo della sua introduzione:

[D]ietro la storia evidente dei mutamenti economici, delle esigenze sociali e delle macchinazioni politiche, scorre una storia segreta legata alle disposizioni psicologiche del popolo tedesco. La rivelazione di queste tendenze attraverso l'esame del cinema tedesco può servire alla comprensione dell'ascesa e dell'ascendente di Hitler.

Non c'è il tempo materiale per approfondire queste teorie (del resto, senza contare tutto il resto della letteratura sul tema, solo i volumi di Kracauer e Eisner ammontano a quasi 1000 pagine) e credo di non avere nemmeno le competenze per affrontare un così delicato periodo storico che viene analizzato da menti superiori da quasi un secolo. No, io mi fermo all'anima cupa che vive ancora in Caligari, che lo rende un lavoro così strepitoso, e che io attribuisco adesso a quelle descrizioni della società tedesca di quegli anni. Non è solo la luce ad essersi impressa in quei fotogrammi, c'è anche lo spirito turbolento, che non trova pace, di una collettività che faceva i conti con i suoi orrori. Questa è la risposta che ho deciso di darmi per giustificare la mia attrazione per Il gabinetto del Dottor Caligari.

Interessante è anche ripercorrere la genesi di questo film. Nel 1920, come oggi, il cinema era industria dell'intrattenimento e come tutte le industrie seguiva le leggi del mercato. Le leggi del mercato, si sa, di tanto in tanto vanno stravolte e questo solitamente succede grazie ad atti coraggiosi di produttori chiaroveggenti che decidono di rischiare, scommettendo su idee che escono fuori dai soliti canoni contemporanei, oppure succede totalmente per caso. Credo che quest'ultima opzione si adatti perfettamente al caso di Caligari.
Il film, per anni, è stato accompagnato da un alone di mistero sul chi dovesse prendersi tutti i meriti della sua riuscita. Era partito come una produzione caotica, senza soldi. Chi lo aveva lanciato nelle sale quasi non gli diede importanza e gridavano al fallimento prima ancora dell'uscita. Da subito Caligari è stato, al contrario, un successo di pubblico anche a livello internazionale, perfino in America.
Il caos generato dalla Seconda Guerra Mondiale ha tagliato il filo creativo che guidava tutto quel genere di film, dal 1920 fino ai primi lavori sonori di Josef von Sternberg (L'angelo azzurro – 1930 – il film che lanciò definitivamente la carriera di Marlene Dietrich) e Fritz Lang (M – Il mostro di Düsseldorf – 1931). Successivamente la Germania ha sanguinato artisti che scappavano in America per continuare il loro lavoro e venivano accettati dall'industria Americana che con loro faceva occhi a forma di dollaro. Prendete Casablanca, per esempio. Al fianco di Humphrey Bogart ritroviamo Conrad Veidt, l'attore che interpreta lo spettrale sonnambulo Cesare in Caligari, nelle vesti – ça va sans dire – del perfido comandante nazista Strasser. Insieme a lui anche un breve cammeo di Peter Lorre, geniale protagonista del già citato M di Lang. Ma oltre a loro scapparono anche la Dietrich, Fritz Lang, Murnau, Josef von Sternberg e, il caso più curioso, uno degli attori più famosi e contesi del cinema tedesco, Emil Jannings, che la fece davvero grossa: arrivò a Hollywood, entrò nella storia per essere il primo a vincere un Oscar come miglior attore protagonista per la sua interpretazione in Crepuscolo di gloria (1929) e poi, incapace di recitare in inglese nei film sonori, tornò in Germania fan del nazismo e appariva in tanti film voluti dal poco simpatico Goebbels.
In tutta quella confusione, i creatori di Caligari si sparsero un po' dappertutto contribuendo a creare altri capolavori di quel cinema. Poi ci fu la guerra, poi ci fu il silenzio.
Nel 1947 il nostro Kracauer tornò a far luce sulla genesi di Caligari. La sua analisi però si basava sullo scritto The story of a famous story del 1941 firmato da uno dei due sceneggiatori, Hans Janovitz, che sosteneva ovviamente che tutte le scelte stilistiche del film erano merito suo e del suo co-autore Carl Mayer. Da qui cominciano a spuntare tante opinioni. Il produttore Pommer diceva che era merito suo e parlava dell'approccio artistico degli sceneggiatori: “loro volevano sperimentare, io volevo abbattere i costi di produzione”.
Poi spunta Hermann Warm, scenografo, che annuncia che non era stato Pommer a supervisionare la produzione, bensì un produttore di film più scarsi di nome Rudolf Meinert. Warm si è anche lui preso il merito dell'approccio espressionista, dividendoselo con i due pittori e suoi collaboratori Walter Röhrig e Walter Reimann, che lavorarono alle decorazioni del set. Eisner, che aveva un rapporto diretto con Fritz Lang, scrive che quest'ultimo difendeva la tesi della presenza di Pommer, ma non posso non dubitare un minimo di queste parole di Lang, semplicemente per il fatto che Pommer ha prodotto la maggior parte dei suoi capolavori. L'opinione generale è comunque che Pommer fosse totalmente assente durante la produzione.
E il regista di Caligari chi era? Robert Wiene.
E perché non ha avuto voce in capitolo? Semplice, perché è stato il primo ad abbandonare le sue spoglie carnali, lasciandoci nel luglio del '38 dopo che anche lui se n'era fuggito in Francia.
Wiene era un regista poco conosciuto e resterà per sempre un regista poco conosciuto. Caligari è stato l'unico suo lavoro degno di nota. Nonostante abbia provato a ricrearne le stesse atmosfere in alcune sue pellicole successive, fino addirittura a proporne un sequel negli anni Trenta, evidentemente mancava quell'elemento di sofferta innovazione che ancora vive nel suo unico capolavoro. Tra le altre cose, Wiene arriva come seconda scelta, perché il film era stato in principio affidato a Fritz Lang, che rifiutò di curarne la regia in quanto impegnato con le riprese dei Der Spinnen (I ragni – 1920), ma che però si fece avanti come responsabile dell'idea di un Rahmenhandlung (una cornice narrativa, un prologo e un epilogo), che servisse a non spaventare del tutto il pubblico che si trovava faccia a faccia per la prima volta con un film dell'orrore (l'idea è classica per quanto brutalmente sbrigativa: tutto quello che succede nella storia è frutto di una mente malata – un pazzo rinchiuso in un manicomio, praticamente). Sta di fatto che Wiene era il regista e non posso pensare che non sia stato ampiamente responsabile per molte delle scelte dietro lo stile del suo film.

Per risolvere l'enigma bisognava avere in mano una copia della sceneggiatura originale, una copia che contenesse tutte le note scritte, aggiunte e cancellate. Al mondo ne esisteva una sola ed era in possesso di Werner Krauss, l'attore che interpretava il tetro Dottor Caligari. Come prevedibile, il custode fin troppo consapevole di questa incredibile reliquia, si rifiuterà sempre di mostrare la sua copia dello script originale, figuriamoci venderla per ulteriori studi. L'attore muore nel 1959 e la vedova Krauss si prende altri diciannove anni prima di decidersi a vendere la copia della sceneggiatura alla Stiftung Deutsche Kinemathek. Era il 1978.
L'analisi del testo originale di Caligari è ottimamente documentata in un piccolo libriccino scritto da David Robinson e pubblicato nel 1997 dal British Film Institute. Il risultato scredita completamente la versione di Janovitz alimentata per mezzo secolo da Kracauer e, come nei migliori film a lieto fine, Robinson mette in pace tutte le vite che hanno contribuito alla creazione di Caligari:

Si trattò, senza dubbio, di una felice unione di talenti. Gli autori provvidero alla struttura della storia; gli scenografi fornirono il set e il look; Conrad Veidt, Werner Krauss e Lil Dagover lo abitarono; Meinart era un supervisore simpatetico; l'assente Pommer diede l'OK. Il contributo meno citato – perché morì troppo presto per partecipare al contest dei meriti – è il regista Robert Wiene.

In parole povere: come si fa il cinema.

Oggi possiamo ammirare la sceneggiatura di Das Cabinett des Dr. Calligari in una piccola teca al Museum für Film und Fernsehen. Il titolo in copertina, come l'ho scritto, è sbagliato, ma ce l'hanno scritto loro così. Sopra le parole del titolo un tipico disegno in stile espressionista rappresenta la scena in cui il Dr. Caligari presenta al pubblico di un luna park il suo Somnambulemensch, al centro di un palco sotto una esplosione di luce.
Sono tornato in quel museo a novembre del 2019. È stato un po' un pellegrinaggio. Sentivo la necessità di tornarci dopo aver girato quel cortometraggio finto-espressionista-tedesco di cui vi parlavo prima e che in quei giorni era in programma al Kino Babylon per il Berlin Sci-Fi FilmFest. Ero tornato per rivedere quella sceneggiatura, che avevo già visto in passato, quando ignoravo tutte le storie che racchiude. La conoscenza di tutte le vicende legate a quel film mi faceva sentire a casa in un posto totalmente straniero e con una inspiegabile nostalgia di un'epoca mai vissuta. Mi scappò un sorriso davanti al diorama che riproduceva il set di Caligari: uno stanzone con le pareti disegnate di luce, come lo si vede nello schermo, e un gruppetto di persone arrangiate disordinatamente dietro la macchina da presa, che mi ricordava molto le condizioni precarie nelle quali abbiamo girato il nostro film nel teatro di posa a Pozzuoli, che era molto simile a quello rappresentato nel plastico.

Alle mie spalle un corridoio era illuminato da una proiezione con l'inquietante scritta espressionista a caratteri cubitali DU MUSST CALIGARI WERDEN!

“Devi diventare Caligari!”

La osservai per un po', con malinconia, prima di dirigermi alla stanza successiva: Metropolis. 

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