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Leopoldo Bifulco

Racconti Resistenti

Il moto elicoidale

I cinque bianchi petali dei gelsomini, si aprivano lungo le siepi profumando l’aria di primavera, anche in città. Il ponentino mitigava la calura incombente e i due passeggiavano all’ombra dei pini marittimi.
Si erano conosciuti all’università frequentando un seminario sul ‘moto elicoidale’ e poi non si erano più visti. Si erano ritrovati, solo dopo qualche anno, impiegati nella stessa società d’informatica. Qui avevano vissuto, con fervore, anni d’intenso lavoro. L’attività era frenetica e l’impegno febbrile, Giorgio e Martina due tecnici esperti di linguaggi di programmazione erano al centro delle attenzioni dell’azienda. Trascorrevano lunghe ore, anche di lavoro straordinario, a mettere a punto le attività e rispondere alle necessità lavorative. Si capivano al volo e, sempre al volo, interpretavano le richieste dei dirigenti e riuscivano a soddisfare le urgenze dei clienti.

Vi starete chiedendo se l’intesa andava oltre il lavoro, ebbene sì, come spesso accade in questi casi.
Martina, single inattaccabile aveva cominciato da qualche tempo a vestirsi in modo a lei ignoto prima, un pizzico più femminile e con un’attenzione ai particolari un tempo sconosciuta. Aveva mantenuto, però, i capelli corti, la bellezza della sua semplicità e quel piccolo neo sulla guancia.
Giorgio, che era da poco uscito da un matrimonio andato a rotoli, ovviamente sempre in maglietta e jeans come si usa tra i suoi colleghi, era incuriosito da quel neo. Per lui, il neo, era un segnale, il simbolo che la perfezione può essere ingannata. Lui che sul lavoro era sempre preciso e impeccabile, rifuggiva la bellezza ideale nelle donne, in queste cercava l’imprevisto, il pretesto, la corruzione di un neo birichino che dona una luce misteriosa ad un volto.

Quella mattina erano più attenti del solito al lavoro e, quando entrò nell’open space Giampiero, il rappresentante sindacale, non gli rivolsero subito l’attenzione che meritava. Non avevano mai considerato con particolare riguardo i sindacalisti. Eppure quella non era una comunicazione formale o di routine che so sugli orari o sulla mensa o sull’atteso rinnovo contrattuale. No, questa volta Giampiero stava parlando di mobilità. 
A seguito del calo del fatturato subito negli ultimi mesi, l’azienda aveva comunicato ai rappresentanti dei lavoratori la necessità di avviare una procedura di mobilità che avrebbe visto il sacrificio di una decina di persone. Di conseguenza l’impresa, alleggerita nel costo del lavoro, avrebbe avuto modo di continuare l’attività produttiva, e, con essa, proseguire ad accumulare utili.

Seguirono giornate difficili per Giorgio e Martina, giornate scandite dal ritmo di comunicati sindacali, assemblee, false rassicurazioni e dubbi crescenti. Loro malgrado furono distolti dal lavoro, la concentrazione svanì e divenne complicato seguire le usuali attività, anche quelle più banali. In ufficio si parlava solo della mobilità, inoltre erano state avviate le trattative per definire i criteri di scelta delle persone da avviare in mobilità.
Come sempre accade in questi casi i prescelti furono individuati tra i più giovani, quelli senza figli e con minori tutele. Tra di loro si trovarono Giorgio e Martina.

I due, increduli ed attoniti, non si opposero agli eventi, furono inerti, e si trovarono, dopo pochi giorni, convocati per la firma dell’accordo di risoluzione del contratto di lavoro. Nel giorno stabilito per la firma ascoltarono, con un pizzico di residua fiducia, le parole di Giampiero e del Direttore del Personale. Fu detto loro che avrebbero beneficiato di un bonus di fine rapporto, di un trattamento fiscale agevolato e, ovviamente, delle mensilità di mobilità previste dall’accordo sindacale. Soprattutto però avrebbero potuto partecipare all’outplacement.
Una parola estranea per indicare una guida, un professionista, che li avrebbe aiutati nella ricerca di un nuovo lavoro.

Così improvvisamente si trovarono senza ufficio e colleghi e con lunghe giornate da impegnare. L’outplacement si rilevò ben presto un orpello burocratico e non servì a molto. I due furono sopraffatti dalla paura per il futuro e dalla noia del presente, giorno dopo giorno. Cercarono un appiglio, uno spuntone di roccia da cui ripartire e lo trovarono nella maniera più incredibile, per caso. Giorgio cominciò a scrivere il diario di quei giorni e lo fece anche Martina. Poi il diario divenne la storia della mobilità e poi la storia del loro incontro e via così, una storia dopo l’altra.

Passeggiavano all’ombra dei pini marittimi e Giorgio ebbe un’idea: «Sai Martina, hai presente le storie che stiamo scrivendo, per dare un senso alle nostre giornate?» 
Martina distrattamente rispose: «Si».
«Ebbene» aggiunse Giorgio «Non credo ci potranno servire a qualcosa, una pubblicazione, un libro o altro, però potremmo metterle in scena, recitarle io e te».
«Sì e quale teatro hai scelto per cominciare?» rispose Martina con un pizzico di sarcasmo.
«Nessun teatro» aggiunse trionfante Giorgio «Le reciteremo per strada».
«Per strada?» chiese incredula Martina e Giorgio immediatamente aggiunse: «Perché, non hai mai visto gli artisti di strada? C’è chi suona, chi canta, chi balla, chi fa i giochi di prestigio. Recitare racconti non l’ho visto fare ancora a nessuno, pensa saremo i primi…»
Un attimo di silenzio, poi Giorgio osservando la siepe sul ciglio della strada esclamò: «Martina guarda il petalo del gelsomino, guardalo bene, guarda come si unisce al calice, vedi è un elicoide, ha una forma elicoidale, ogni petalo ne raffigura il moto…»
Da lì erano partiti e da lì trovarono il coraggio per ripartire, grazie al moto elicoidale. 

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