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Carmine Ferraro 

Docente e scrittore

Racconti Resistenti

Il peso dei corpi.

Quel giorno Piazza Trivio scottava. L'estate era finita da più di una settimana, ma non era colpa della stagione, no, erano le nostre teste: fumavano come le macerie sotto le bombe. 
Sudati assieme agli stracci che indossavamo, ci si guardava in giro. Se qualcosa non era cambiata, allora stava per cambiare.
L'unica testa gelida, lì al crocevia, l'unica lungo tre strade semi deserte, era una testa matta.
Aveva gli occhi blu, proprio come i ghiacciai da cui veniva; si portava la terra sua negli occhi, mentre ci toglieva la nostra da sotto ai piedi. Era solo un ragazzino e la vita gli aveva insegnato poche cose, a marciare con la schiena dritta, per esempio. Ma il ragazzino indossava il cappello sbagliato. Nero. Con un'aquila appuntata che spiegava le ali dritte, in croce come un cristo, luminosa come un sole d'argento.
L'unica testa fredda era la sua.
Una volta un prete, forse a San Nicola o forse all'Annunziata, voleva consolarmi e mi disse: «Voi tutti siete persone umili. E gli umili non provano grandi passioni». 
Io odiavo. Un odio disumano. Odiavo la divisa e il ragazzetto che la portava in giro per il mio paese. Odiavo la divisa per quello che era successo alla mia famiglia, l'odiavo per i morti di tutti, l'odiavo per la sua lingua dura, l'odiavo per il chiasso ubriaco e molesto della notte, l'odiavo per le cose che mi aveva insegnato sugli uomini, sulla guerra, su di me.

Da tempo, a Giugliano, si vociferava dell'arrivo degli alleati, di altri forestieri. Gente dal passo lungo, di un mondo lontano, che aveva percorso il più pericoloso degli oceani nei ventri delle loro navi. A me per arrivare a Napoli ci volevano quattro ore di camminata e carretti di fortuna.
Qualcuno sussurrava che la città era insorta, che la morte non solo pioveva dal cielo, ma scoppiava pure dalla terra, che i partigiani, dei pazzi armati male, volevano fare la guerra a tutti, allo Stato, ai fascisti, ai nazisti, a tutti.
Italiani e nazisti. Per la prima volta li vedevo veramente assieme. E tremavano. Qualcosa - chiamiamola pure la volontà di Dio - incombeva su Giugliano, su questo paese di polvere e fame. Veniva per noi, ostaggi in casa nostra, o per i tedeschi, bloccati in una terra che non conosceva la neve nemmeno d'inverno?
Le voci delle radio ronzavano speranza e timore, in base alla frequenza, di palazzo in palazzo. 
C'era agitazione nell'aria e le teste erano fumanti. La mia più di tutte, la mia che odiava. 

Quando il soldato-ragazzo fu solo, alla sera, in Piazza Trivio, il 29 settembre dell'anno 1943, io sapevo cosa fare. Antonio, il falegname, mi guardò e capì tutto subito. Cutunnella, la guardia, se ne stava in piazza a perdere tempo con i suoi soci. Sono sicuro che posò le carte da gioco e saltò dalla sedia quando mi vide correre per la piazza rabbioso e folle, come i cani di Piattiello con la bava alla bocca. 
Non ci fu verso di fermarmi. Non avevo più collari. Me li avevano tagliati tutti. 
Stringevo tra le mani il bavero insanguinato di un tedesco. Il sangue colava dalle labbra del ragazzo come la pioggia estiva tra gli alberi di mele annurche.
Antonio e Cutunnella mi furono davanti, tra me e il mio destino. Ma era tutto già deciso, nessuno aveva più voce in capitolo. 
Antonio mi prese per un braccio e provò a bloccarlo sotto la sua ascella sudata, mentre Cutunnella dapprima mi allontanò dal corpo del soldato, poi si piazzò come un muro basso e stabile sotto il mio petto. Il tedesco, caduto per terra, vomitava dolore e bestemmie indecifrabili. 
Non ho mai pensato che potesse finire così.
Si infilò nel gruppo, agile e flessuoso come una biscia, un quarto uomo, Peppe, che aveva preso a riempire di calci il ragazzino. Oh, il mio odio! Lo riconoscevo negli occhi degli altri, sulle bocche digrignate, nei muscoli tesi.
La scena durò poco, ma sembrava un affresco di palazzo Palumbo, immobile, eterno, bellissimo. 
Per la prima volta, quel 29 settembre, ricoperta di pedate contadine, la divisa tedesca era fragile, nella polvere, la divisa era mortale.

Cutunnella e Antonio mi lasciarono andare, stravolti prima dalla paura e poi dal rancore dissepolto. Avevano capito che non c'era alcun modo di tornare indietro. Le loro mani grosse, di chi ha conosciuto il lavoro in fasce, si chiusero in pugni, ma non per fermarmi questa volta.
Tutti e quattro colpivamo la divisa, adesso potevamo farlo, e se dentro la divisa c'era il ragazzino non era di certo colpa nostra. Antonio si lanciò alla vita del soldato e gli prese la pistola, l'unico dente con cui la bestia avrebbe cercato di mordere. Il falegname se la guardò come se fosse un pezzo appena uscito dalla sua bottega. La spiaccicò sul naso del soldato, minacciandolo in ogni modo. «Ne, strunz?» chiedeva alla fine di ogni frase, come se si aspettasse davvero una spiegazione. Ma ormai il tedesco taceva, era un osso inerme e rigido in mezzo a quattro cani. 
Ci fermammo, non per pietà, avevamo dimenticato tutti cosa fosse. Volevamo che il nazista si rialzasse, volevamo dargli il tempo di scappare via. Pietro, Peter - una cosa del genere - scappa, corri!
Piangeva, si disperava, fuggiva via inseguito dalla sua morte. Per una volta le parti si erano invertite.
Peter aveva imboccato il Corso Campano. Noi gli stavamo dietro, col fiato sul collo. Antonio urlava: «Fermatelo, è disarmato!» E sventagliava il suo trofeo in aria. La gente si scansava o fuggiva via. Ero talmente eccitato che volavo: correre non mi costava più fatica. L'unico a corto di fiato era Cutunnella, che dopo circa un chilometro decise per tutti, si fermò, senza alcun segnale tirò fuori la sua di pistola e con un solo colpo attraversò da parte a parte la testa del soldatino.
Il suono dello sparo rimbalzò lungo i palazzi, entrò nelle case per gelare il sangue di chi ascoltava. Aveva sparato Cutunnella, ma ad Antonio l'arma appena rubata cadde di mano. Si era fatta pesante. Del resto non era mai stata la sua, Antonio conosceva il legno, non il metallo, e il legno era molto più leggero.
Il corpo del ragazzo ruzzolò per terra. Le gambe ritratte e le braccia in croce. Sembrava l'aquila del suo cappello, morta. Di poveri cristi ce ne erano stati troppi per poter provare una briciola di pietà verso la bestia.
Sciami di uomini larva si dileguarono nelle traverse del Corso Campano. La divisa era caduta e non c'era alcuna festa, nessuna parata. Cosa temevano? La loro vita, la mia vita valeva molto meno della morte del ragazzo. Nessuno lo capiva.
Solo Giggino, l'infermiere, si avvicinò con le gambe tremanti e la voce rotta... manco Cutunnella avesse sparato a lui: «Voi, voi avete ucciso a noi, co' sta pistolata».
«I tedeschi» diceva guardandoci negli occhi, «i tedeschi rastrelleranno le case, ci ammazzeranno tutti». 
Cutunnella, Antonio, Peppe sembravano ritornati da un brutto sogno. Guardavano le finestre dei palazzi, gli androni dietro gli ingressi: erano soli. Avrebbero voluto dileguarsi come giravolte di polvere. 
«Ciro» mi chiamò l'infermiere, «prendi quel carretto e portalo qui».
Cutunnella fece per dire qualcosa, voleva riprendere in mano la situazione, ma buttò giù l'aria e fece un passo indietro. L'aria. Mancava a tutti e tre. Al furore dell'inseguimento, al chiasso dello sparo, seguì un'assenza d'aria.
Peppe si inginocchiò sul cadavere. Non come si fa davanti all'altare. Gli sfilò l'orologio dal polso e un anello d'oro. Mentre lo guardavo con disprezzo e quasi avevo voglia di trascinarlo per i capelli, Peppe guardò l'infermiere e ringhiò: «Meglio farla sembrare una rapina finita male, che un messaggio di rivolta ai nazisti, no?» 
Però si tenne anello e orologio, proprio come in una rapina vera. 
«Jatevenne, luateve a sott i piedi» disse l'infermiere nervoso, senza più pazienza, «e tu, Ciro, piglia 'stu caspita 'e carretto, fa' ambress».
Una voce autorevole ispira urgenza, mette fretta, anche se a me non interessava più niente. Avevo aggiunto un altro morto alle strade del mio paese. Il morto aveva la divisa. E mi sentivo meglio? Forse sì, ma Giggino mi metteva fretta e non riuscivo a darmi la risposta che avrei voluto.
«Portatelo al cimitero» ci suggerì qualcuno lì vicino, una voce fuori campo, «labbasc, in mezzo alle terre, chi potranno incolpare?»
Volevano portare via il corpo. Volevano spostare la bomba, farla esplodere da un'altra parte, lontano dalla faccia dei propri familiari, certo, ma pur sempre in mezzo ad altri compaesani. In tempo di guerra si muore, si sa, almeno non facciamo morire i più cari. Era questo il ragionamento, ma con me non funzionava più.

Il corpo di un uomo morto, anche se ragazzo, è pesante. Terribilmente. Un peso che non ti accascia a terra, ma sottoterra, che ti sprofonda, un peso che ti spinge dove non riesci a vedere, che ti stanca le gambe e la schiena più di una giornata a zappare.
Era una cosa che sapevo già, l'avevo imparata sollevando mia figlia dalla polvere. 
Io e l'infermiere proseguimmo per via Marconi, lì all'angolo, poi per Vico Ponte. Andavamo verso la campagna aperta per arrivare al cimitero. Manco i nostri morti avremmo fatto stare quieti con il cadavere di un soldato tedesco a tormentarli assieme ai vermi.
Ma forse, se un paradiso c'è, avremmo continuato tutti insieme a inseguirlo e a sparargli in testa per l'eternità.
Eppure chi di noi meritava il paradiso? Nessuno. Solo i più piccoli, che avevano le gambe troppo corte per inseguire un soldato, e a loro la vita non aveva ancora insegnato a sparare.
Ribaltammo il carretto e ce ne scappammo, attenti a evitare le pattuglie, strisciando sulla terra come serpi, prima di chiuderci dietro la porta di casa con noi stessi. La notte fu lunga e non portò chiarimenti.

Il giorno dopo, il 30 settembre, ritrovarono il corpo del soldato. I tedeschi pretesero subito i colpevoli o si sarebbero vendicati, abbattuti su Giugliano come il gelo sui vigneti... ma il paese, a quanto pare, sapeva mantenere un segreto.
Ci era chiarissimo che ai nazisti non piaceva essere messi da parte. Come aveva previsto Giggino, poco dopo le 15:00 iniziarono i rastrellamenti, ciechi, casuali, urlanti, vicino piazza Annunziata, a poche centinaia di metri dall'omicidio. Forse avevano ricostruito la vicenda e una punizione esemplare, sul pietroso sagrato della chiesa, doveva soddisfare quel certo gusto scenico nazista.
Di Antonio, Cutunnella e Peppe nemmeno l'ombra. Forse, come me, spiavano nascosti assieme ai topi. Davanti all'Annunziata, spalle alla chiesa e con le facce rivolte alle canne delle mitragliatrici, tra il cielo e il fango, tredici uomini spaventati e ignari. Non sarebbero morti per un ideale, per una giusta causa, ma solo perché l'odio è cieco e alla violenza basta il suo esercizio, non pretende ragioni o cause.
Non mi feci vanti, non volevo che ci fossero eroi, né martiri, non avevo più chi difendere, né fedi in cui credere.
Tredici uomini e li conoscevo tutti. Uno ad uno. Scorrevo i loro volti e rimandavo a mente i loro nomi, puntando l'indice, come si fa a scuola con le lettere. 
Bastiani Luigi, Borretti Clemente, Borzacchiello Francesco, Cacciapuoti Paolo, Cerqua Ernesto, De Biase Umberto, Di Marino Stefano, Granata Felice, Guarino Antonio, Sarnelli Aldo, Sestile Salvatore, Schiattarella Mario, Vassallo Gennaro.
Morirono tutti. Sotto i nostri occhi, nel boato dei colpi.
Quel giorno l'aria bruciava in piazza Annunziata. Non era la stagione, ma le teste dei fucili che scottavano.
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