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Giancarlo Marino

Scrittore e docente di scrittura

Racconti Resistenti

Quando volano le orche.

…e resta ancora da capire per quanto tempo ci terranno qui. Almeno da questa camera si vede il mare. Covid hotel è il nome ufficiale ma mamma e Luigi lo chiamano: esilio. “Ciao Laura come va l’esilio?” così mi scrive ogni giorno tra le dodici e le tredici, mia madre. Sempre alla stessa ora. Non vuole far sapere alla colf quello che mi è successo. Quando mi ha raccontato che Patrizia chiede sempre perché non passo più a portarle i suoi fiori preferiti, è scoppiata a piangere. Dice che ci tiene alla privacy della nostra famiglia ma è palese che si vergogni. Che poi tutti sarebbero me, il mio smartphone, la piantana che tengo sempre accesa per vedere bruciare i moscerini e la tv che parla a volume spento, come un quadro che cambia forma istante dopo istante. 
Per quanto riguarda Luigi… Luigi lo sento sempre meno spesso… no, non è perché è stato contagiato, non sono meschina fino a questo punto. È che ci stavamo lasciando già prima che fossi costretta all’esilio. Viveva sul divano da più di un mese, l’appartamento è il suo ed io non mi decidevo ad andare da mia madre. No, non sono vigliacca, o almeno non è questo è che non volevo lasciare Caboto, il nostro gatto. Siamo colleghi, ci siamo conosciuti sei anni fa all’istituto oceanografico, e a quest’ora avremmo dovuto essere in Canada per il post-doc. Ieri mi ha scritto che probabilmente l’unica orca che vedrà mai in vita sua sarà quella di Gardaland. Mi sono preoccupata e ho provato a chiamarlo ma mi ha staccato la chiamata. Dice, o meglio scrive, che non riesce a parlare bene perché non respira benissimo. Gli ho chiesto se lo ha riferito al dottor De Biase ma non mi ha risposto. Forse dovrei chiamare suo padre…
Sto bene, nonostante mi misuri la febbre due volte al giorno, a volte di più, sto sempre bene. 35,4, 36; una volta persino 36,4 ma niente. È strana questa sensazione per cui quasi mi auguro di avere almeno qualche decimo di febbre. La mia psicologa dice che sono i sensi di colpa per Luigi, perché ho deciso di lasciarlo e perché lui sta male e io invece sono asintomatica o almeno è quello che mi è parso di capire, quassù la connessione fa schifo e una conversazione su Skype è più difficile che governare un falò per i segnali di fumo. 
Oggi mi pizzicava la gola ma forse ho aggiunto troppa curcuma al riso che mi hanno lasciato fuori dalla porta. Non ho portato neppure una fotografia con me, ma non ho dimenticato le spezie, eppure non credo che siano consentite. Ma nessuno ha perquisito la mia borsa quando sono entrata qua dentro. È strano questo carcere dove i secondini hanno più paura dei galeotti.
Ieri sera ho visto un meme su Facebook in cui si ironizzava sul fatto che i telefoni dei ricoverati nelle terapie intensive vengono consegnati ai coniugi. Forse dovrei eliminare le mie foto di nudo. Ma d’altronde non penso che Luigi le abbia cancellate ed è lui quello che… gli ho mandato un messaggio della buonanotte con una battuta sul sexting, non mi ha neppure risposto. Però lo ha visualizzato e questo mi basta per confortarmi. 
Al tramonto sono uscita in balcone e ho avuto difficoltà a capire dov’era il sole. Mi ero dimenticata che il golfo ha un orientamento strano, e l’ovest non corrisponde al mare ma al vulcano più o meno. C’era un leggero vento autunnale, gradevole credo ma forse avrei dovuto portare con me una pashmina per proteggermi la gola. Il mio vicino di stanza sembra fregarsene e ogni volta che esco fuori lo trovo a fumare affacciato alla sua ringhiera. A più di due metri di distanza dal mio balcone, o almeno credo, ormai non sono più sicura di nulla, meno che mai della mia capacità di valutazione. Inala ed espira senza soluzione di continuità, a parte il cenno di saluto che mi fa senza sorridere. È un vecchio magro reso ancor più magro dal pigiama a righe verticali eppure sembra che abbia uno sfiatatoio al posto della bocca. Chissà come deve essere a Vancouver. Ogni giorno abbiamo notizie dall’America ma non sappiamo niente del Canada. Luigi direbbe che se ci fossero più orsi polari e meno carri armati il mondo sarebbe un posto migliore. Forse l’ho lasciato per il suo amore per i luoghi comuni. Quanto a me, cerco di guardare meno notizie possibile: i telegiornali, la conta dei morti e dei contagiati sono diventati un chiacchiericcio insopportabile. Sto smettendo di seguire anche i profili social che parlano della pandemia. Oggi ho impiegato due ore a fare pulizia nelle varie home dei miei account prima di accettare il fatto che sono troppi. Prima erano solo troppi a parlare della malattia, ormai troppi ad ammettere di averla contratta
Qua fuori l’aria è fresca e le nuvole incombono senza minaccia, recalcitranti a far piovere. Ogni tanto uno spruzzo di luce cade sul mare grigio, me lo sono sempre immaginato di quel colore il Pacifico settentrionale. Qualcosa di scuro e grande emerge tra le acque più distanti, alla estremità della penisola.
Sono una stupida! Non ho portato con me il binocolo, ma chi avrebbe pensato mai di mettersi a fare osservazioni nell’esilio? Indico quella massa scura al mio vicino e lui finalmente accenna una specie di sorriso sfiatando nicotina. Lo smog si dirada per un attimo e riesco a mettere meglio a fuoco: una enorme pinna caudale, nera. Si inabissa facendo risalire in superficie solo un incredibile spruzzo che prima si innalza e poi si espande come un fungo atomico. Il mare si increspa e onde sempre più alte si avvicinano alla costa, alla spiaggia, alla superstrada e quindi all’hotel. Attraverso il muro d’acqua, vedo in controluce la massa nera che schiuma biancheggiando sul ventre. È un’orca enorme, più grande di qualsiasi cetaceo sia stato mai osservato prima, più grande del sogno proibito del peggiore tra i paleontologi, più vasta delle fantasticherie da criptozoologo di Luigi. Sono terrorizzata, rivolgo parole farneticanti al mio vicino di stanza che continua a fumare imperterrito con lo stesso sorriso ineffabile. La marea ormai è vicinissima, ha già inghiottito il gabbiotto dei bagnini e si appresta a divorare la striscia d’asfalto che separa la spiaggia dall’albergo. Al di sopra dell’onda anomala si staglia l’orca maestosa, nera e bianca come il giorno e la notte, con la bocca spalancata e la lingua rossa e i denti affamati. Più che cavalcare lo tsunami sembra volarci al di sopra. Sono così terrorizzata che non grido più, resto immobile aspettando di essere travolta e divorata. Ormai gli spruzzi d’acqua lambiscono il tetto dell’albergo e l’orca mi mostra la sua chiostra di denti aguzzi come i pinnacoli di una cattedrale naturale e iridescente. Sembra quasi che voli attraverso il muro d’acqua. Mi sorride cattiva e poi… E poi, più nulla.
Davanti a me si estende solo la distesa grigia del mare sovrastata da nuvole color nicotina che si fanno sempre più fosche. Mi volto verso il vicino che ha finito di fumare e sta schiacciando la cicca con la punta della pantofola. Vorrei domandargli se anche lui ha visto l’orca, il mostro tra le onde, la marea, la tempesta in arrivo pronta a investirci ma mi mancano le parole. Ho freddo e sono sudata, forse per lo spavento, forse… Lui no, il mio vicino di prigionia è tranquillo e continua a scrutare l’orizzonte come non si fosse accorto di nulla, come se quella minaccia in agguato fosse invisibile. Forse dovrei farmi consigliare qualche pillola per dormire ma non vorrei che mescolandola alla profilassi per il virus facessi peggio. Di certo il mio analista dirà qualcosa di stupido sull’inconscio, l’angoscia per il nemico invisibile, il post-doc in Canada, Luigi lontano… L’angoscia è qualcosa di così scontato. Sempre uguale a se stessa come le notizie al tg che non guardo più: aumento contagi, terapie intensive, curva che si innalza... Magari stanotte c’è stato un attentato in qualche metropoli europea, così giusto per cambiare un po’…
Luigi direbbe che sono diventata cinica, che un tempo non ero così, che il virus ci ha reso tutti peggiori. La solita fiera della banalità, penserei io. Eppure quanto mi manca quella banalità oggi. Non Luigi, non il nostro amore finito da tempo, non le ortensie che ogni giorno portavo a mia madre, sempre di un colore diverso. Quello che mi manca è la banalità della vita. Quella cosa che ti scorre accanto come un mare piatto che hai fuori dalla finestra, mosso solo da una leggera brezza che lo increspa giorno dopo giorno, sotto un sole stanco che lo evapora goccia a goccia finché non resterà solo il deserto. 
Come mi manca la noia del vivere senza l’onnipresente consapevolezza della necessità di morire. Senza vedere più le orche volare.
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