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Romualdo Meo

Racconti Resistenti

Il viaggio

Una coltre di polvere si sollevò all’istante al passaggio della bicicletta di Hamidi.
Le ruote sfrecciavano nel buio della notte come se fossero state vive e consapevoli che quella poteva essere la loro ultima corsa. La pelle scura del ragazzo si camuffava bene nel paesaggio notturno.
Dietro di lui si udirono delle sirene squarciare la tranquillità del silenzio. Un fascio di luci artificiali si levò dal campo che Hamidi si stava lasciando alle spalle, inquinando quella coperta di stelle del cielo di Biskra. 
Hamidi sapeva che non poteva fermarsi. Anche voltarsi solo un attimo poteva risultare fatale al suo scopo. Avrebbe voluto portarla con sé ma sarebbe stato troppo rischioso, a volte bisogna sacrificare persino chi si ama pur di mettere in salvo la pelle. 
Gli occhi lucidi facevano affiorare nelle iridi di Hamidi una luce di speranza che proiettava nella sua testa la pellicola di un film a lieto fine: un lavoro, la scuola, una casa. Tutto ciò che non poteva appartenere alla normalità del suo villaggio.
Il passato si fece largo nei suoi pensieri, inquinando le meraviglie che la sua immaginazione stava disegnando del futuro.

Il villaggio Kumala, vicino Ansongo nel Mali, era la casa di Hamidi fino a qualche tempo prima. 
Danso tirò su la rete nel piccolo gozzo che galleggiava precario sul fiume Niger. 
Hamidi gli stava di fianco e dava man forte al povero vecchio che voleva fare sempre tutto da sé ma era evidente che ogni tanto gli servisse un aiuto. 
«Lascia stare. Faccio da solo».
«Dovresti riposare un po’, sono io quello più forte adesso».
«Ma che riposare! Tu con la tua forza bruta mi strappi tutte le reti! Bisogna lavorare con la testa, non con i muscoli».
«Però ogni tanto i muscoli fanno comodo» rispose Hamidi sorridendo. 
«Facciamo presto. Tua madre vorrà pur mangiare qualcosa».
Avevano pescato una decina di pesci di varie dimensioni. Era stata una battuta di pesca niente male, una volta scartati quelli malati, perché inquinati dalle vicine attività minerarie dei bianchi, sarebbero usciti fuori almeno cinque o sei pesci, poteva pure andare. 
Mentre percorrevano il fiume, nell’acqua marrone, notarono una grossa macchia rossa. Hamidi e suo padre si guardarono pietrificati, il sangue proveniva dal loro villaggio. 
Un forte crampo fece cadere Hamidi dalla bicicletta, era un dolore lancinante alla gamba destra. Peggio della puntura di un calabrone il crampo iniziò a bruciare e sanguinare. Un furgone militare lo stava raggiungendo a tutta velocità nella notte. Hamidi voleva raggiungere il mare, non poteva finire così. Si girò un attimo e vide il furgone con quei balordi appostati e pronti a fare di nuovo fuoco. Il ragazzo aveva un solo vantaggio, lui era piccolo e silenzioso nel bel mezzo del nulla, loro erano grandi e grossi e non capaci a insinuarsi nella tranquillità del silenzio. 
Hamidi sparì dietro un piccolo rialzo di sabbia. Il furgone filò dritto. Doveva cambiare direzione adesso, meglio scegliere la strada più lunga, pensò, il più delle volte è quella giusta. 

Hamidi e Danso percorsero a gran velocità la strada verso casa. Cercavano di tagliare l’aria con la Jeep. La via del ritorno, che generalmente sembra più corta, quel giorno maledetto pareva essere infinita. 
Smontarono dalla macchina all’ingresso di Kumala. Si vedeva del fumo. Decisero di entrare a piedi per non farsi sentire da nessuno. Le loro orecchie non percepivano altro che poche grida di disperazione. Capirono che era tutto finito, se ne erano andati. Hamidi prese a correre verso la loro casa. Arrivò davanti alla costruzione fatta di argilla e col tetto in paglia, e si precipitò dentro. Mody, suo fratello più piccolo, giaceva in un angolo stretto nella morsa della paura, raggomitolato quasi a tentare di scomparire dal mondo. Non c’erano né sua madre, né sua sorella. 
Più tardi il piccolo gli raccontò che erano entrati uomini armati di grossi fucili e che avevano iniziato a sparare, prima all’aria e poi alle persone che tentavano di fuggire e agli uomini già rientrati al villaggio che tentavano di reagire. Quella volta servivano donne, non si sa per cosa.
Hamidi ricordò sua madre, era bella, ancora giovane. Sua sorella invece era il ritratto vivente dell’adolescenza della mamma. Scomparse entrambe. Rapite. 
Hamidi uscendo dalla capanna diede uno sguardo basso a Danso e a Mody che si abbracciavano. Il bambino aveva smesso di piangere e non lo avrebbe mai più fatto. 

Hamidi era ferito, ma camminò per altre due ore. Le forze stavano per venirgli meno quando finalmente vide una città. 
Algeri si mostrava in tutta la sua bellezza. 
Hamidi era convinto di poter partire. Ce l’aveva fatta. D’improvviso però la gamba iniziò a fargli di nuovo male, aveva perso molto sangue. Quel dolore fisico si associò a un altro dolore, il ricordo. Suo fratello Mody che se ne andava con quegli sconosciuti. Hamidi sperò di ritrovarlo ad Algeri. Glielo aveva promesso, si sarebbero visti al porto. 

Qualche giorno prima Mody e Hamidi stavano attraversando il deserto del Sahara a bordo di due cavalli che avevano comprato grazie ai pochi soldi che il padre era riuscito a dargli. 
Il calore della sabbia rovente era a tratti insopportabile. Gli serviva acqua e cibo. Non potevano andare avanti a lungo con quel poco che avevano.
Si accamparono per la notte e il giorno seguente i cavalli erano spariti. Hamidi non si capacitava di come non avesse sentito arrivare i ladri che glieli avevano portati via. 
Camminavano in preda all’inerzia. Dovevano andare avanti nonostante non ci fosse più niente da fare.
Mody cadde per primo. Era quasi disidratato. 
«Bevi, bevi questa» gli sussurrò con voce flebile Hamidi.
Il più giovane non rispose e spillò fino all’ultima goccia di acqua. 
Hamidi gli sorrise ma non riuscì ad alzarsi da terra. Caddero entrambi svenuti nel bel mezzo del nulla. 
Immagini tremende si diffusero nella sua mente. Hamidi stava scivolando verso una luce insistente e fastidiosa. Aprì gli occhi e davanti a sé scorse ancora il sole, ma questa volta passava da una finestra. Si alzò di scatto e la vide. Era bellissima, come la speranza. Accanto a lui c’era Njemile e poco più in là su un altro lettino, Mody stava ancora dormendo. 
«Sta calmo. Sei al sicuro» disse Njemile con voce dolce.
«Dove siamo?» 
«Siete ad Adrar».
«Adrar? È un’oasi?»
«No. È una città, in realtà noi siamo poco fuori il centro abitato».
«Come ci siamo arrivati qui?»
«Mio padre vi ha soccorso trovandovi svenuti poco lontano».

Hamidi era ormai entrato nella città di Algeri, era ancora buio e decise di cercare un posto dove dormire per qualche ora. Non sapeva come fare a pagare una locanda, così si distese contro la parete di un edificio vicino al porto e provò a immaginare il suo arrivo in Italia o in Francia. Provò a pensare a come sarebbe stato felice. Infine si ricordò di quelle due settimane di permanenza ad Adrar.
Ma i ricordi tristi, quando sono ancora ferite aperte, fanno di tutto per prendere il posto della felicità.

Hamidi si vedeva già nella sua nuova casa, con la sua bellissima moglie incinta del loro primo figlio che avrebbe avuto una nazionalità diversa dalla loro ma il sangue africano. Era su quel sangue che si edificavano i castelli in aria di Hamidi. 
«Hai deciso?»
«Credo di sapere già tutto, ma ancora non ne sono sicura».
«Devi solo dire che verrai con noi, ci sarà del tempo per esserne convinta».
«Non voglio lasciare mio padre qui da solo senza nemmeno dargli una spiegazione».
«Ma lui capirà! Gli chiederò la tua mano» Hamidi si alzò dal letto preso dall’orgoglio.
«Sarebbe capace di gettarti di nuovo nel deserto» anche Njemile si alzò dal letto ma solo per andare ad abbracciarlo.
Appena Hamidi si sentì avvinghiare dalle dolci braccia di quella donna, si girò dandole un bacio che sembrava destinato a non terminare mai. 
Scapparono la mattina seguente, prendendo il furgone del padre di Njemile. 
Se lo ricordava bene Hamidi quel maledetto giorno. 
Njemile vide una specie di posto di blocco in lontananza e si fermò. Erano ormai vicini al loro obiettivo, non sapevano dove fossero di preciso ma non doveva mancare molto alla loro meta. Algeri sarebbe stata la loro salvezza, la possibilità di partire. 
«Che faccio? Vado avanti?»
«Non lo so. Ormai ci avranno visto».
«Non ci voleva… e se li aggirassimo?»
«Ci inseguiranno comunque».
«Siamo arrivati?» Mody nel frattempo si era destato dal sonno.
«Non ancora, dormi! Sdraiati sul sedile un altro po’» gli disse Hamidi.
«Io vado. In fondo non stiamo facendo niente di male, stiamo solo andando ad Algeri» disse Njemile innestando la prima. 
Prima di poter prendere velocità, un altro furgone simile al loro si accostò accanto ai ragazzi. Dal sedile passeggeri un uomo sulla trentina si sporse dal finestrino: «Siete pazzi a passare di qui, a meno che non abbiate un permesso» sentenziò. 
«Permesso? Ma io sono algerina!» 
«Loro non sembrano mulatti quanto te» disse l’uomo guardando i due fratelli.
«E come si ottiene questo permesso?»
«Non si ottiene! Per controllare l’emigrazione chiunque tenti di passare senza un permesso viene internato in un campo».
«Che genere di campo?» chiese Hamidi con un terrore nuovo negli occhi.
«Non si sa di preciso, ma credo sia meglio non saperlo».
«E come facciamo?» Njemile era quasi nel panico e non riusciva a staccare le mani dal volante. 
«Non credo abbiano visto il ragazzo. Fatelo nascondere nel nostro furgone. Lo faremo passare».
Dopo molta esitazione Hamidi dovette fidarsi degli stranieri. Il furgone con Mody a bordo passò senza alcun problema. 
Njemile e Hamidi furono fermati.

Un forte tonfo ridestò dal sonno Hamidi. Erano degli uomini che scaricavano delle casse da trasportare sul retro di una sorta di osteria. 
Doveva essere mattina presto, il ragazzo si alzò e si guardò la gamba. Gli serviva soccorso. 
Iniziò a camminare nella folla di Algeri. Procedendo a tentoni Hamidi si portò davanti a un ambulatorio. Entrò dentro e stramazzò tra le braccia di un infermiere. 

Li portarono al campo, lui e Njemile. 
Hamidi aveva implorato di lasciarla andare ma quelle guardie non avevano sentito ragione. Non avrebbero potuto trattenerla perché lei era algerina ma questo non interessò a nessuno di loro. Era anche tanto bella, e in un campo di prigionia agli uomini in divisa servono divertimenti. 
Li separarono e da quel momento non si videro più. 
      
L’ennesimo risveglio pieno di angoscia, questa volta su un altro letto più duro di quello della casa di Njemile ma Hamidi si sentiva sicuramente più in forma. Si guardò la gamba e la vide fasciata. Fortunatamente gli avevano prestato soccorso. 
Un medico entrò nella stanza: «Buongiorno! Vedo che ti sei svegliato, molto bene».
«Buongiorno! Devo andare via!»
«Non così in fretta…» il medico chiuse la porta.
«Cosa c’è?»
«Hamidi… ti chiami Hamidi? Non è così?»
«Sì è così»,
«Ho trovato i tuoi documenti».
«Ha chiamato le guardie?»
«Io no. Ma qualcun altro sì».
Il medico anziano e dalla barba crespa e bianca si mise a sedere vicino al letto.
«Allora mi arresteranno!»
«Non oggi, figliolo».
Pronunciate quelle parole il medico spiegò ad Hamidi come fare ad andarsene dall’ospedale, lo fece passare dal retro poco prima che le guardie arrivassero. 
Hamidi, lieto di aver trovato un altro angelo sulla sua strada, si incamminò verso il mare. Doveva riuscire a imbarcarsi a ogni costo, quel medico gli aveva cacciato in mano duemila dinari algerini. Non sapeva come mai tanta generosità ma certe volte è meglio non chiedersi niente.
Il mare biancheggiava contro il molo e Hamidi non aveva avuto notizie né di Njemile né di Mody. Riuscì ad imbarcarsi spendendo tutti i suoi duemila dinari per pagare un tizio che gli aveva promesso di farlo salire su un traghetto. Peccato che tra la parola traghetto e la parola gommone ci sia una grande differenza, soprattutto in termini di resistenza, peso e capienza. 
Il gommone salpò pieno zeppo di altri fortunati. Hamidi si girò a guardare le coste dell’Africa. Una lacrima gli cadde dolcemente lungo la guancia. Il suo viaggio stava per giungere alla fine. 

Romualdo Meo: si è diplomato nel 2011 in tecnico della ristorazione, ha cominciato a lavorare come cuoco prima in Italia come lavoratore stagionale e poi a Londra dove si è trasferito all’età di vent’anni. Dopo quasi cinque anni nella metropoli inglese, ha deciso di ritornare in Italia al fine di coltivare la sua vocazione per la scrittura, la letteratura e la storia iscrivendosi contemporaneamente alla facoltà di Beni culturali dell’università Federico II di Napoli. Sempre nel napoletano ha frequentato un corso di scrittura indetto dall’associazione letteraria “Un’altra galassia”. Qualche anno prima si era già dedicato alla stesura di piccoli romanzi umoristici e poesie, cimentandosi anche in altri generi, alcuni dei suoi titoli sono auto pubblicati sul sito www.ilmiolibro.it. A luglio del 2020 è andato in stampa “Quando il super eroe non c’è” il suo primo libro edito da LFA publisher. Il tema all’interno della raccolta di racconti in questione è quello dell’“uomo solo” il quale avrebbe bisogno dell’intervento di un super eroe ma questi “non c’è” oppure non è quello che sembra. Attualmente è docente supplente di enogastronomia e vive tra la vecchia casa di Pisciotta e la provincia di Perugia.
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