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Yasmin Tailak

Studentessa italo palestinese



Il volo di Icaro del genere umano

Nel suo libro Il Tempo e l'Acqua (2019), il narratore, poeta e attivista ambientale Andri Snær Magnason dice tante cose che turbano. Nella sua fotografia dell'Islanda, il paese in cui vive e che prima di tutti gli altri, per le caratteristiche naturali e la prossimità ai grandi ghiacciai, subisce le conseguenze del cambiamento climatico, l'autore si muove tra autobiografia e riflessione politica, e ci consegna un testo che risulta profetico e sinistro.
Magnason dice tante cose che turbano, e una di queste è, ad esempio, il fatto che nessuno di noi si rende realmente conto dell'enormità di quello che sta accadendo al nostro pianeta. Sono proprio le cifre di grandezza della catastrofe a risultare di difficile comprensione per l'esistenza limitata dell'essere umano. Inquinamento ambientale, acidificazione degli oceani, scioglimento dei ghiacciai, aumento della temperatura, innalzamento del livello del mare: quante volte abbiamo ascoltato queste parole, e quante volte ne siamo stati davvero, collettivamente, atterriti?
E' come se per un meccanismo di rimozione o di difesa gli uomini decidessero di dedicare uno spazio marginale, trascurabile, di preoccupazione a quella che sarebbe la fine del mondo.
Il disastro si perde dietro altre parole, sbiadisce di fronte a notizie molto meno rilevanti ma molto più accattivanti, viene messo da parte come 'gergo scientifico', e si continua con le proprie faccende, con la propria quotidianità.
'Ho in me tutti i sogni del mondo', scriveva Pessoa, e se possiamo scorgere questo anelito di infinito è perchè abbiamo dentro una profondità senza fondo, una tensione all'illimitato che è davvero ciò che ha reso grande l'umanità, e probabilmente è anche ciò che la distruggerà.

Si fa un gran parlare di cambiamento climatico. Di transizione ecologica, di rivoluzione green. Le gigantografie dei manifesti pubblicitari mostrano ammiccanti la nuova 'svolta' plastic-free da acquistare, il purificatore d'aria di turno, i governi inseriscono nei loro piani di ripresa post-pandemica dei vaghi ed imprecisati progetti per gli investimenti verdi. Si fa un gran vociare sul 'cambiamento dei paradigmi', sulla diminuzione delle emissioni di carbon fossile, sulla termovalorizzazione dei rifiuti. Qualcuno ricorderà quando, prima della pandemia, i luoghi pubblici italiani, alcuni bar e alcune università, in ritardo rispetto ad altri paesi europei come la Germania, l'Olanda e i paesi scandinavi, iniziarono a dismettere dai distributori le bottiglie di plastica, per promuovere i contenitori di bevande in vetro. Era il momento della plastica, della tassa sulla plastica, della plastica a mare, delle cannucce di plastica, della plastica superflua. Ci si entusiasmò perchè pareva un passo importante. Era bello crederci, e sicuramente se tutti limitassimo il consumo o il super-consumo di materiali inquinanti e scarsamente degradabili sarebbe un bel gesto.
Ma non è strettamente la plastica il problema del mondo. Non è il piano di transizione ecologica che ci salverà dal disastro. Perchè la lotta alla plastica e la transizione ecologica si sono articolati in maniera malata all'interno di un modello di sviluppo canceroso che non è mai stato minimamente messo in discussione.
Il modello capitalistico-industriale.

In due secoli, e anche Magnason ce lo ricorda spesso durante la lettura del suo testo, l'uomo è riuscito a comprimere un livello di mutamento e sconvolgimento come mai si era visto. Ha fatto in un brevissimo lasso di tempo molto più di ciò che non era riuscito a fare per millenni, e questo nel bene e nel male. Dalla seconda rivoluzione industriale in poi è come se l'umanità industrializzata si fosse messa alla guida di un automobile potentissima, col piede tutto sull'acceleratore. La strada è dritta e priva di ostacoli, e si corre, si corre, i freni non funzionano più, sembra tutto bellissimo, se non fosse che, poco prima dello schianto, ci si accorge che la fine di quella strada è un muro, che quel percorso era un vicolo cieco, e che è troppo tardi per fermarsi.
'Harder, better, faster, stronger', sempre di più, un progresso sempre più spinto, una tecnologia sempre migliore, più forte, più veloce, più, più, più. Si è arrivati ad un livello tale di spinta progressiva che davvero pare che nulla più ci possa accontentare; forse per fermarci dobbiamo solo vedere materialmente con i nostri occhi ciò che nel mondo non industrializzato già vedono da tempo: il disastro del calore, dell'aridità, della mancanza di alberi e quindi di ossigeno, dell'inquinamento dell'aria alle stelle, sì, ma quando ci fermeremo? L'essere umano è stato capace di fagocitare il pianeta in cui vive, ripeto, ha fagocitato, per volere tutto, il pianeta in cui vive, un intero pianeta.
Icaro voleva andare più in alto, e alla fine si è bruciato. Il suo mito resta obiettivamente una delle metafore più precise che il mondo antico ci ha lasciato sull' umanità di tutti i tempi, che per quanto progredita possa diventare, resta antica nella mente e nelle emozioni. L'ebrezza del volo è l'ubriacatura dell'accumulo, materiale e simbolico, e l'accumulo è alla base del capitalismo. Se non si mette in discussione l'intero sistema, possiamo dirci persi del tutto.
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