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Enrica Leone

Docente e scrittrice

Juve - Napoli, la partita infinita

Da quando sono al mondo assisto, ogni volta un po’ più incredula, alla disputa calcistica tra le più importanti del campionato italiano, Juve- Napoli. Da bambina, negli anni di Maradona, lo scontro era tra due mondi, due sguardi completamente opposti, se non antitetici, sulla vita. Di tutto questo io capivo ben poco, sapevo solo che quelle domeniche bisognava ascoltare la radio in religioso silenzio e aspettare il miracolo calcistico che sapeva di riscatto sociale. Oggi che Maradona non c’è più, di quell’antagonismo resta solo l’acredine, come fossimo stati educati, da buoni napoletani, a identificare la Juve con il nemico, dimenticando il perché. Eppure da un po’ questa rivalità comincia a sembrarmi qualcos’altro, qualcosa che all’epoca di Diego forse era più palese e che è bene analizzare oggi che siamo immersi in una crisi che non capiamo, i cui risvolti dipendono in larga parte dalla nostra capacità di analizzare storicamente il presente.
Sono 160 anni che, ciclicamente, si ripropongono gli stessi problemi. Dall’unità d’Italia a oggi non si è riusciti a sanare un divario nord-sud di cui è colpevole senza attenuanti la malapolitica. La pantomima dei plebisciti con cui il meridione venne annesso allo stato piemontese non può celare la delusione, il disincanto e l’aperta avversione con cui venne accolta la notizia da gran parte della popolazione meridionale, sempre tradita dai suoi governanti, qualunque fosse la loro casacca. Pochi anni dopo, le inchieste meridionali di Villari, Sonnino e Franchetti cercarono di fare luce sulle reali esigenze di un Sud che reclamava: terra, giustizia e lavoro.
Come spesso succede la ragion di stato, coincidente con gli interessi economici e politici dei soliti noti, prevalse e, proprio come detto dal Gattopardo, cambiò tutto per non cambiare nulla.
Da 160 anni storici, giornalisti, intellettuali e politici analizzano e reinterpretano la Questione meridionale, che nel frattempo rimane lì, mutata nella forma, ma peggiorata nella sostanza. All’indomani dell’Unità, correva l’anno 1861, in molti videro nello stato nascente la possibilità di riscatto vagheggiata da sempre. In tanti seguirono Garibaldi non certo per il colore casual della sua camicia, in tanti si sentirono da lui traditi non già per quell’obbedisco, ma per il suo farsi da parte, lasciando che altri organizzassero un’Italia che non esisteva. Questi altri erano gli stessi che l’avevano messa in ginocchio, i ricchi borghesi del Nord e i latifondisti del Sud. Vennero poi Fortunato, Salvemini, Gramsci, grandi menti, ognuna col suo portato di studi e di teorie che furono per lo più disattese, quando non proprio ignorate. La linea della sinistra gramsciana era quella di unire le istanze degli operai del Nord e dei contadini del Sud, emancipando gli stessi grazie ad un’istruzione che, nell’ottica del grande intellettuale, avrebbe reso cittadini così diversi, più consapevoli e liberi.
Quanta tristezza vien da dire col senno di poi, scorrendo le pagine della storia patria, dove si fa fatica a trovare politici che si siano davvero adoperati per rendere l’ideale gramsciano una forma di realtà. Nel tempo gli studi, le inchieste, le teorie hanno preso le sembianze delle donne e degli uomini che la questione la portavano impressa sulla pelle. Alla fine del 1800 il Sud fu interessato dal più grande fenomeno migratorio della storia d’Italia; in migliaia raggiunsero le Americhe in condizioni pietose, alla ricerca di una possibilità che non riuscivano a trovare in patria. Nessuno li trattenne, più facile mandarli altrove e utilizzare i loro risparmi per finanziare la grande industria italiana, localizzata prevalentemente al Nord (Nel 1907 la Banca d’Italia salvò la FIAT dalla bancarotta, utilizzando le rimesse degli emigranti meridionali).
In un paradosso che è tutt’altro che misterioso, il divario nord-sud si acuisce, diventa frattura dolente e ci riguarda tutte e tutti. Perché ancora oggi c’è un meridione che manca di prospettive, che vede la sua meglio gioventù partire non sempre per scelta, ma per necessità. Ancora oggi in certi luoghi trovare lavoro può voler dire mettersi nelle mani di un padrone, dipendere da un gesto magnanimo che nei paesi civili chiamano diritto. L’immagine di un’Italia a due velocità è ancora tremendamente e tragicamente attuale, solo che oggi manca pure quella volontà di conoscere, indagare e denunciare che aveva animato gli intellettuali di un tempo. Oggi sappiamo e abbiamo le prove del disastro italiano, risultato di corruzione, avidità, cinismo e incompetenza, ma non facciamo niente. Riduciamo l’analisi storico-sociale a una diatriba da stadio, ci accontentiamo, se ci va bene, di vincere una partita, mentre lo scontro vero, che si gioca sulla pelle delle nuove generazioni, quasi non ci appassiona più. Questa partita la stiamo perdendo tutti.
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