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Yasmin Tailak

Studentessa italo palestinese

La guerra infelice della Francia all'Islam

C'è uno spettro che si aggira per l'Europa, uno spettro mai seriamente affrontato, neanche lontanamente battuto: lo spettro dell'islamofobia. La guerra all'Islam, il ritorno prepotente sullo scenario pubblico del razzismo islamofobo, di cui si sente sempre più spesso parlare, più che configurarsi come un banale scontro di civiltà, del 'mio patrimonio culturale avanzato, laico, libero' contro 'il patrimonio retrogrado, superstizioso, maschilista degli altri', si inserisce in un quadro storico che dal colonialismo in poi ha segnato un destino indigesto agli Europei.
La settimana scorsa è passata al senato francese una proposta di legge che vieterebbe a tutti i minorenni di indossare simboli religiosi nello spazio pubblico. Sebbene la proposta sia già di per sé controversa (perchè vietare simboli religiosi personalmente indossati in uno spazio pubblico? Qual è il senso dell'aggettivo 'pubblico'? Cosa si sta cercando di colpire, con questa legge?), essa non arriva a sorpresa. 
La Francia, infatti, già da anni si è posta come territorio centrale di scontro con i musulmani e, nell'ultimo anno, la situazione si è tesa come una corda, sempre pronta a spezzarsi.
La laicità, di cui il paese si sente baluardo, è di fatto diventata semplicemente un termine-scudo dietro cui piazzare la azioni politiche finalizzate a marginalizzare l'esistenza dei musulmani francesi.
A febbraio di quest'anno è tornato alla ribalta un termine particolare che era stato, per qualche anno, messo in disparte nel dibattito pubblico francese: islamogauchismo. In un'intervista rilasciata alla Cnews, la ministra dell'istruzione Frederique Vidal ha esplicitamente affermato che l'islamogauchismo, cioè la collusione tra gruppi di estrema sinistra e Islam politico, è un pericolo reale che affligge e incancrenisce la Francia e le università francesi. Si tratterebbe per la ministra francese di un pericolo da combattere con ogni mezzo. Una affermazione che fortunatamente non ha lasciato indifferenti personaggi politici e accademici, che ne hanno chiesto, invano, le dimissioni.
I primi mesi del 2021 confermano che lo sforzo della classe di governo francese è tutto teso alla lotta contro la società civile musulmana, uno sforzo che ha costellato le scelte politiche della squadra di Macron per tutto il 2020.

Qualcuno sicuramente ricorderà quando, nell'ottobre del 2020, dopo l'assassinio del professor Pety per mano di uno studente ceceno, tutto il mondo musulmano iniziò una campagna di boicottaggio massiccio dei prodotti 'made in France', in risposta alle perquisizioni di decine di organizzazioni islamiche, scioglimenti di associazioni, e sconsiderate criminalizzazioni, materiali e mediatiche, dei musulmani francesi.
A dicembre 2020 il primo ministro Jean Castex aveva commentato un disegno di legge contro il 'separatismo religioso', poi approvato dal Consiglio dei Ministri, asserendo che tale legge non riguardava la religione islamica in particolare, ma intendeva conformare ancora di più lo statuto legale in materia religiosa ai principi di laicità su cui è fondato lo Stato. Curiosamente, nello stesso mese di dicembre, il ministro dell'Interno Gérald Darmanin aveva disposto lo scioglimento del CCIF, il Collettivo contro l'islamofobia in Francia, fatto denunciato da Amnesty International come 'inspiegabile' e 'minaccioso per la libertà di associazione'.

In realtà, risulterebbe ingenuo pensare che dietro la presunta 'rincorsa statale alla laicità e all'integrazione' degli atti pubblici compiuti dalla politica francese in questo biennio incendiario non si nasconda esattamente la volontà di colpire una religione in particolare; ed altrettanto ingenuo sarebbe pensare che questo ostracismo premeditato possa avvenire senza reazioni talvolta pacate, talvolta meno pacate, scatenando un corto-circuito infelice da cui non si può tornare indietro. 
La Francia non può permettersi una guerra all'Islam.
La sua storia coloniale, di soppressione delle libertà e della dignità esistenziale degli algerini e dei popoli nordafricani, su cui ha dominato fino alla metà del secolo scorso, non glielo permettono.
Non glielo permettono i milioni di musulmani che anche – anzi, soprattutto! - in virtù di quel passato storico, vivono da generazioni sul suolo francese.
Certamente non glielo permette neanche la sua recente storia di violenze, su cui sarebbe interessante ascoltare qualche assennato psicologo, perchè ciò che si sta consumando da anni in Francia è qualcosa di antropologicamente generativo dal una parte di inquietudine e sgomento, dall'altra di astio e di odio.
Sarebbe interessante, ad esempio, parlare con un francese musulmano di seconda o terza generazione, chiedergli come si sente, cosa pensa, come passa il suo tempo, se per lui la parola 'integrazione' ha un qualche senso o se è per lui una parola vuota, un significante vuoto, un modo per sostituire la cultura di minoranza con la cultura di maggioranza.
Oppure sarebbe interessante se la ministra dell'istruzione, se il ministro dell'Interno visitassero le banlieu, parlando, davvero solo parlando, con la civiltà che le abita da decenni.
Chiedersi, magari, se la fascinazione di alcuni ragazzi francesi per l'Islam radicale non derivi anche da un risentimento storico, oppure da un senso di abbandono e di allontanamento dalla società in cui vivono, una ricerca di una comunità, di un abbraccio sociale.
Ipotizzare, forse, che l'essere messi alla berlina, ridicolizzati, criminalizzati e continuamente, ogni giorno, essere guardati come infettanti, isolati, minacciosi e cattivi li renda davvero così, cattivi, minacciosi, infettanti e soli.
Domandarsi se il germe delle violenze imperiali del secolo scorso non abbiano lasciato una traccia profonda nel sentire collettivo dei francesi di origine araba, un senso di dolore che rimbalza micidiale come una fionda gigantesca, domandarsi se il modo giusto di curare quella traccia genetica di rancore sia davvero svuotare quelle generazioni della loro cultura, religiosa e sociale, o se se invece quel modo non è altro che un testa contro testa, una dimostrazione di supremazia, il risveglio delle offese e delle ferite dell'esclusione.
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