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Enrica Leone

Docente e scrittirce

Ken il guerriero

«Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista.» Hélder Pessoa Câmara (noto come Dom Hélder; Fortaleza, 7 febbraio 1909 – Recife, 27 agosto 1999)

Con queste parole, dette da un prete troppo cristiano e per tale ragione ritenuto comunista, Ken Loach, regista britannico riferimento per generazioni di cinefili, riceve il premio speciale Mario Puzo, durante l’ottava edizione del festival Corto e a capo, il cinema nelle aree interne. Non è affatto scontato che in un luogo come Venticano, un piccolo paese della provincia di Avellino, irrompa l’arte negli occhi di uno splendido ottantenne che ha ancora molto da dire e tanta voglia di fare. L’idea di portare il cinema d’autore in luoghi dove anche raggiungere una sala è ormai impresa difficile, è in realtà la vocazione del Festival Corto e a capo, che ormai da otto anni realizza una kermesse di grande levatura culturale. In questa edizione la presenza di Ken Loach ha richiamato un pubblico eterogeneo per età e per interessi, ma unito dal desiderio di un cinema diverso e non più facilmente fruibile. Nell’epoca della banalità, del gusto per l’eccesso e per la superficialità, il cinema di Loach ci riporta alla poesia dell’ordinario, alla voglia di autenticità che fu la grande scoperta del neorealismo. E così in una mattina d’agosto, in un paesino di provincia, si tiene una lezione non solo di cinema, ma di bellezza, di urgenza umana, di politica. Politica che irrompe con la sua drammatica evidenza proprio durante l’incontro, quando il sindaco dice di dover partecipare a una riunione per la costruzione di un elettrodotto nelle nostre terre o quando Antonio, con i suoi trent’ anni, mi sbatte in faccia un’esistenza precaria, di cui la mia generazione si sta bellamente disinteressando. La politica e il cinema per Loach sembrano essere la stessa cosa. Proprio come un Paulo Freire del nostro tempo, il regista ci ammonisce dicendo che il vero cambiamento può venire solo dalle classi subalterne, se no non è cambiamento, e il cinema è per lui lo strumento per dare voce a queste classi sociali. Nel racconto del suo metodo di lavoro si rinviene un rigore di viscontiana memoria: al cinema mi ha portato soprattutto l’impegno di raccontare storie di uomini vivi, di uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse. Così Visconti in un’intervista su Rocco e i suoi fratelli, parole che potrebbero ugualmente riferirsi al cinema di Loach, alla sua attenzione ossessiva per una resa autentica della realtà. Dice il regista britannico durante la master class: C’è oggi un’anestetizzazione dei bisogni, delle necessità e dunque del desiderio di raccontarsi. Per essere credibili bisogna essere autentici, non ha senso scegliere attori che devono atteggiarsi a, quando esistono persone che davvero vivono un dramma esistenziale e sociale. Questo sembra di fatto ridare senso al discorso neorealistico portato alle sue estreme conseguenze dal cinema del primo Pasolini o dal Truffeaut dei Quattrocento colpi.

Il mio cinema è documentaristico, intende dare un ritratto autentico del tempo che racconta, intende essere storico. Il cinema diventa dunque nei lavori di Loach un forma di racconto della verità ed è questo costante anelito, una sorta di ricerca affannosa mai soddisfatta eppure indispensabile ad animare il regista e le sue opere. Questo bisogno di verità è quanto di più umano ci sia ed è ciò che come società stiamo accuratamente evitando, rifugiandoci in racconti molto più consolatori.

Chi vive in un certo modo ne porta i segni, I mangiatori di patate di Van Gogh o La morte della Vergine di Caravaggio sono dei capolavori perché in loro si rivela una verità che è prima umana e poi spirituale. Non è sbagliato ritenere che anche questo tipo di pittura abbia influenzato l’immaginario del regista britannico. Infatti un film che voglia essere arte secondo Loach deve mirare a questa verità, che non può essere una copia sbiadita del reale, ma il reale così com’è. Bisogna dare dignità alla complessità del mondo ed è un lavoro questo fatto di bravura tecnica, un confluire di competenze che armonicamente restituiscono allo spettatore uno scorcio di autentica vita. Tutte le maestranze hanno un peso specifico nella realizzazione di un’opera cinematografica, non esistono gerarchie, neppure tra gli attori e le attrici. Se nel cinema attuale vale la regola del lights on the money, ovvero di dare maggiore risalto all’attore che attira introiti, nel cinema di Loach vale la regola della luce di Caravaggio, una luce che rivela la vita di tutti, senza distinzione e così come si illumina si può spegnere. C’è oggi un filone molto meno noto, ma apprezzato da tanti, che indaga la società con uno sguardo profondo e arguto, penso alle inchieste di Iannacone o allo splendido Selfie, lavori di sorprendente poesia e rara bellezza. Quello che accomuna questi autori al regista inglese è la scelta di fare un cinema che sia al servizio di un’idea di società, un cinema dove non c’è spazio per il narcisismo, perché nessun narcisismo è compatibile con un’opera civile. Si parla dunque di arte, ma si parla al contempo di una forma di mondo e di comunità. C’è chi si è venduto al capitalismo e chi ha saputo dire di no a logiche incompatibili con le proprie idee. Ken Loach ha detto no. Chiudendo questa splendida e intensa master class ha più volte invitato gli astanti a preferire la solidarietà all’individualismo, in qualsiasi campo si operi. L’unico antidoto all’angoscia di vivere è esistere e farlo insieme, non negando la fragilità, ma raccontandola. Così, come un Leopardi contemporaneo, Loach rinviene nella solidarietà tra le umane genti la vera rivoluzione possibile. La sola rivoluzione possibile. 

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