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Paola Iannelli 

docente ricercatrice  e scrittrice

Racconti Resistenti

La lezione della speranza.

Il rumore sordo dei miei passi attraversa lo spazio vuoto degli ambienti. Il suono squillante, quello della campanella della scuola mi avverte che la prima ora è ormai andata. È volata via, come quell’angolo di paradiso che era questo luogo prima del silenzio. Un abisso profondo si è aperto nel mare agitato del vivere quotidiano, accompagnato da urla, gesti muti, occhi, abbracci e prese di affetto. Un vitreo domani ha contagiato il presente, spargendo cenere e lapilli, infuocati come la rabbia che provo ogni giorno. Sento il peso del rischio, quello di perdere l’armonia che ti regala vivere nel mondo, subendo l’avanzo strisciante dell’angoscia.

Pensieri, riflessioni, speranze affollano la mente al mattino. Tutto svanisce nel momento in cui afferro la maniglia dell’ampio portone, in ferro battuto, che limita l’ingresso dell’istituto. Tutto tace. In un angolo remoto, dell’ampia sala scorgo il profilo della collaboratrice scolastica, Donna Cettina, il viso incartapecorito, ridotto a una maschera inespressiva, mi guarda con sfida, mal sopporta questo stato di isolamento. Il cuore le suggerisce di tacere, di contenere il peso del vuoto. Un fascio di sole autunnale spegne quel buio nello sguardo. Accenna un ghigno e con rispetto abbassa leggermente il capo, poi ritorna nella medesima posizione imitando uno stato fetale, concavo. Respiro piano, provo a immaginare il mio di stadio “primordiale”, quando la fame di ossigeno è condivisa nel grembo materno. Vorrei ricordare il confusionario ritmo di quel luogo, dove nel buio si alimenta la crescita di quel bozzolo di vita che si sarebbe trasformato nella donna che sono.

Le aule deserte tuonano come vecchie casse di risonanza, l’abbandono dei musicisti non lascia alternative, l’unica melodia che viaggia è quella dell’assenza. Eppure vi entro, cerco di ricordare, mi sembra di sentire le voci, le risate grasse, che come schiaffi di vita mi colpiscono, sembrano scudisciate. Riempio il vaso, in cui scorgo i resti dei fiori che, immancabili occupano l’angolo sinistro, della mia postazione. La luce fioca del monitor del computer invade il campo visivo, lampi di luce blu colorano le mie dita, che decise digitano la parola segreta. L’immagine del nostro gruppo di lavoro appare in tutta la sua pienezza, sembra ieri che posavamo per una foto ricordo. I volti stanchi, dalle finestre aperte si scorgeva l’avanzare della calura estiva. Indossiamo indumenti dai colori sgargianti, ignari della nostra prossima primavera.

Uniti, abbracciati, la mia collega di corso mi bacia sulla guancia. Sussulto. Un desiderio latente insorge, lo vivo come un nemico scomodo, non lo tollero. So che vorrei tuffarmi in quella immagine e respirare la gioia del contatto. Sentire l’alito dell’amicizia invadere ogni minuscola presa d’aria, correre spensierata tra le maglie della complicità. Le speranze entrano di soppiatto nei cunicoli del mio cuore, gonfiano gli atri e eliminano i pensieri bui, colorano le vene di sangue misto. Ha il sapore dell’incertezza, dell’arrivo inatteso. Ho perso tempo, tempo prezioso.

Volo in alto e fiuto l’odore acre della sconfitta, tento di eludere il resoconto, ripasso nella mente i volti degli allievi, le tristi apparizioni che condividiamo sulle piattaforme in essere. Anime minuscole, appaiono ancora più indifesi, più fragili. La loro conoscenza è minata, mille aghi appuntiti sorgono sul sentiero, ma sarà proprio lo studio e la ricerca che li salverà, la logica delle soluzioni seguirà il profilo dei giusti.

Sospendo il tempo. Resto io e il mio dove. Rinchiudo in un luogo sicuro i dubbi e vado avanti, fingo un’altra me. Sorrido e spiccico le prime frasi che mi vengono in mente. So che loro leggono il mio pensiero, siamo stati insieme troppe ore, troppo tempo. Cerco di resistere e piango silente, eppure quel sale invernale che giunge dal mare mi inebria. Lascio che mi circondi, sniffo la sostanza invisibile che mi circonda. La socialità appare come una chimera, un frutto proibito, lo desidero con ardore, mentre nelle ore di solitudine assaporo me stessa. Ripercorro le ore, i giorni, i mesi, gli anni che inconsapevoli accompagnavano il quotidiano. Un’energia magnetica mi riporta indietro e rivivo il mio ieri.

Un gabbiano vola alto, libero e ignaro di tanta sofferenza. Si eleva rapido, segue un percorso invisibile, lui sa dove andare e cosa fare. Io, in cambio, ho perso il mio andare, i dubbi si sono moltiplicati, così come le angosce. Nella variopinta umanità però brilla una stella, la sua magica e splendente scia mi suggerisce una strada. Una scintilla segna la via, sarà quella che ci salverà. La conoscenza. Ed è proprio questo di cui parlerò a loro domani. Bisogna avere fiducia nel sapere umano, nella capacità di elaborazione, nella sintesi delle teorie, che se applicate con sapienza portano a una soluzione.

Il sole è alto, riaccendo il monitor, come per incanto siamo di nuovo in contatto io e voi. Vi sorrido e per la prima volta, l’anima ha smesso di vagare nei cunicoli dell’agonia, vi bacio virtualmente e iniziamo un nuovo giorno, un nuovo anno. Sappiamo che un fuoco amico ha riscaldato la caverna della conoscenza, illuminato le immense pareti, alimentando le menti che tra poco ci permetteranno di risolvere l’enigma. L’indifferenza del male ci ha resi diversi, abbiamo compreso che siamo il tutto di uno, che la nostra vita ha senso se spesa nella comunità. Bandite i veli dell’ignoranza, sconfinate nel territorio della cultura, alimentate il senso della curiosità. Aiutatemi a limitare l’abbandono, io vi porgo la mano. Buongiorno.
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