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Anita Porta

Analista di mercati energetici, laureata in lingue straniere e scienze politiche

Londra, la variante inglese e il pregiudizio verso gli italiani all’estero. 

Faccio parte del gruppo di italiani rimasti bloccati nel Regno Unito a seguito del decreto dei ministri Di Maio e Speranza del 21 dicembre. Sarei dovuta partire proprio il giorno del decreto per passare il Natale con la mia famiglia. Mi sono recata all’aeroporto la mattina per fare il tampone prima della partenza come richiesto dal precedente decreto, per poi prendere un volo di sera. Nel mentre, è arrivata la notizia della nuova decisione del governo riguardante gli arrivi dal Regno Unito. Il nostro volo – a differenza di quelli in partenza per l’Olanda che aveva chiuso i propri confini agli arrivi dal Regno Unito il giorno precedente – risultava ancora operativo tanto che siamo stati addirittura chiamati al gate per procedere all’imbarco. È stato solo a quel punto che abbiamo ricevuto la comunicazione che il volo era stato annullato in seguito alle nuove disposizioni del governo italiano. 

La comunicazione è stata seguita da momenti di comprensibile caos, in cui i viaggiatori – per la maggior parte persone giovani, ad occhio sotto i trenta – chiamavano casa e cercavano di trovare possibili soluzioni. Molti sono rimasti in aeroporto nella speranza di poter prendere un aereo diretto verso paesi che non avevano ancora chiuso le frontiere al Regno Unito, come Francia, Spagna e Danimarca, per poi proseguire verso l’Italia. Io ho ritenuto meglio tornare verso Londra, a casa mia.

Al di là del dispiacere per non poter passare il Natale insieme ai miei genitori, mi considero una persona fortunata: a Londra ho un lavoro, quindi una fonte di introito fissa, e un appartamento a cui fare ritorno, dove convivo con delle persone cui mi lega un ottimo rapporto e che non hanno mancato di accogliermi con un abbraccio e la cena pronta in tavola. 

Tante persone, che erano con me in aeroporto, però erano in una situazione molto diversa. Alcuni transitavano da Londra per tornare in Italia; provenivano da altre parti del Regno Unito e avrebbero dovuto fare ritorno. Al momento, Londra si trova nel cosiddetto “Tier 4”, il massimo livello di pericolosità del Covid, introdotto nella capitale poco dopo la fine del lockdown nazionale del 2 dicembre. In teoria, è vietato spostarsi da zone Tier 4 a zone di minore pericolosità, per cui il ritorno a casa di queste persone sarebbe stato senz’altro complesso. C’erano anche molti ragazzi che a Londra non avevano più un lavoro, a causa del Covid o della naturale fine di un contratto; altri che avevano chiuso i propri contratti di affitto e che avevano assoluta necessità di fare ritorno alle proprie abitazioni di famiglia in Italia, per ragioni economiche.
 
Vorrei, in questa sede, evidenziare diverse criticità del decreto del 21 dicembre. In primo luogo, quanto sia inopportuno emanare un decreto con validità immediata per regolare una materia che riguarda la logistica e gli spostamenti di migliaia di persone, per di più con un preavviso di pochissime ore. Come avrebbero dovuto regolarsi le compagnie aeree? E i passeggeri? E chi era già in volo? Ho sentito di amici che stavano già viaggiando per l’Italia nel momento in cui il decreto è stato emanato; una volta arrivati in aeroporto all’arrivo, sono stati bloccati prima sul velivolo, e poi dentro l’aeroporto stesso, in attesa che le autorità stabilissero il da farsi. All’aeroporto di Londra, il personale (sia quello dell’aeroporto che delle compagnie aeree) non era al corrente della situazione e cercava di fare del proprio meglio per gestire la confusione derivante da centinaia di persone che domandavano di poter partire (centinaia di persone oltretutto bloccate in uno spazio chiuso di capienza limitata, non esattamente il massimo date le circostanze). La maggior parte delle persone in partenza per l’Italia, come previsto dal precedente decreto, si era organizzata per fare il tampone prima di partire ed evitare così la quarantena di quattordici giorni all’arrivo. Così avevo fatto anche io. Trovare enti che potessero somministrare un test antigenico a Londra è stata una fonte significativa di stress (le disponibilità si esaurivano in maniera rapidissima), nonché un costo importante: un test molecolare poteva costare fino a 160 sterline, un antigenico sulle 100. 

Secondariamente, il governo ha dimostrato, ancora una volta, scarsa attenzione per gli italiani all’estero. Non voglio scadere nella facile retorica del dramma del Natale lontano dalla famiglia. Come ho scritto in precedenza, per fortuna a Londra la mia situazione è abbastanza favorevole da consentirmi comunque di passare delle feste serene, e credo che la cosa sia simile anche a molti altri italiani all’estero, alcuni dei quali hanno infatti scelto di non partire. Tuttavia, esistono situazioni molto diverse. L’”Italiano all’estero”, sebbene molto popolare a livello mediatico, non esiste come categoria uniforme. C’è chi all’estero vive da anni, ha la cittadinanza del paese ospitante e una famiglia costruita lontano dall’Italia; c’è altresì chi all’estero si è trasferito da poco e ci vive in condizioni precarie, con contratti di lavoro temporanei e contratti di affitto rinnovati ogni pochi mesi. È assurdo, nel voler regolamentare gli spostamenti fra due paesi, non tenere conto di queste fondamentali differenze. Durante il primo lockdown, almeno in parte, si era cercato di farlo; gli italiani non iscritti all’AIRE potevano sempre fare rientro al proprio domicilio, mentre quelli che avevano spostato la residenza all’estero potevano farlo soltanto per motivi di assoluta urgenza (come la perdita del lavoro e l’impossibilità di mantenersi nel paese ospitante). Da iscritta AIRE, ai tempi avevo accettato la cosa, certamente con un po’ di dispiacere per non poter tornare a casa, ma rimanendo ben contenta di avere, alla mia età (ho 27 anni) un lavoro a tempo indeterminato.

Infine, vorrei approfittare dello spazio a disposizione per denunciare l’insensatezza, dal punto di vista regolatorio, di introdurre ben tre diverse modalità di entrata in Italia nell’arco di un mese (liberamente fino al 10 dicembre, con scelta fra tampone e quarantena fino al 20, e con quarantena obbligatoria dal 21 in avanti), per poi cambiare comunque le carte in tavola all’ultimo minuto, impedendo di fatto qualsiasi pianificazione. La scoperta della nuova variante del Covid, soprannominata prontamente “variante inglese” dai media assetati di anti-anglicismo post Brexit, non sembra, dal punto di vista sanitario, costituire una ragione sufficiente. Il fatto che questa variante si sia manifestata nel sud dell’Inghilterra non ci dice nulla sulla sua origine, né ci dà alcuna assicurazione sul fatto che tale variante non si sia già largamente diffusa al resto dell’Europa.

La “variante inglese” risulta invece un ottimo pretesto per rincarare la dose di criticismo contro il governo britannico, accusato di aver mostrato una gestione lassista della pandemia. Da persona che ha vissuto a Londra durante il lockdown di primavera e quello di autunno, mi sento di garantire che anche questa visione risulta fondamentalmente imprecisa. L’accusa di lassismo poteva reggere durante il primo lockdown – specie se si confronta la relativa rilassatezza dell’approccio britannico rispetto al rigore della regolamentazione italiana -, ma Boris Johnson sembra avere imparato dai propri errori. Innanzitutto, durante tutta l’estate, mentre in Italia si discuteva del problema “discoteche - sì, discoteche – no” e in Sardegna nasceva “il cluster del Billionaire”, gli inglesi hanno passato dei mesi relativamente sobri, con orari di apertura limitati per pub e ristoranti e limitazioni al numero di persone che si potevano incontrare a 6 – due misure che poi sono state copiate in Italia all’inizio dell’autunno -. È vero, dall’altra parte, che molto più spazio è stato lasciato alla responsabilità individuale; questo è avvenuto non perché, come ha detto qualcuno, gli inglesi amano la libertà più di noi, ma perché, a differenza nostra, hanno capito da tempo che l’efficacia di qualsiasi misura di salute pubblica risiede nello spazio di libertà fra quello che le persone sono autorizzate a fare e quello che effettivamente fanno. Dal momento che esistono aspetti del comportamento individuale praticamente impossibili da controllare (ad esempio, quante persone si incontrano in casa propria, o se effettivamente si faccia all’amore con la mascherina, come qualcuno aveva suggerito fosse opportuno), si impongono restrizioni più severe di quelle che si possono effettivamente implementare, così che, anche se ogni singolo cittadino decidesse di occupare quel piccolo iato di libertà per la propria utilità personale, questo non risulterebbe in un disastro.

Infine, questa chiusura delle frontiere verso il Regno Unito, dove risiedono centinaia di migliaia di italiani, evidenzia ancora una volta il rapporto problematico della politica e dei media italiani verso la figura dell’expat. Da un lato, l’etichetta molto popolare di “cervello in fuga” risulta estremamente scomoda quando è attaccata alla propria persona (“cervello” in base a che? “In fuga” da che cosa)? Dall’altro, quando si è un “expat”, un “cervello in fuga”, o comunque ci si voglia chiamare, è facile rendersi conto che è un paese intero a non sapere cosa farci, con quell’etichetta. Quando qualche situazione spiacevole coinvolge gli italiani all’estero, i media e l’opinione pubblica si dividono, più o meno equamente a seconda dei casi, fra le retorica della “generazione Erasmus” e quella dei “traditori della Patria”. Davanti ad una tale schizofrenia, non posso fare a meno di chiedermi: ma è così difficile lasciarci in pace? È così difficile considerarci persone come tutte le altre, non più santi e nemmeno più codardi, al limite più ambiziosi e magari più affamati? Sicuramente non conosco le motivazioni di tutti i miei coetanei che sono partiti, ma so che quando ho deciso di stare all’estero non l’ho fatto per essere un messaggero di pace fra i popoli e nemmeno perché volevo la vita facile. L’ho fatto per una ragione incredibilmente elementare: per la migliore qualità delle università, prima, e per la migliore offerta sul mercato del lavoro, poi. Forse il problema sta proprio qui, nel rifiuto di ammettere delle ragioni così elementari. Soprattutto, di ammettere che non sono i cosiddetti “cervelli in fuga” ad essere eccezionali, in positivo o in negativo, ma questo paese, che offre sempre troppo poco. 
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