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Alessia Zarlengo

Ambientalista e

femminista

Milioni di lavoratrici della moda abbandonante dai grandi marchi. 

Allo scoppio dell’epidemia Covid-19 milioni di operaie dell’industria della moda, tra Bangladesh, Birmania, India, Filippine e Cambogia sono state licenziate o hanno visto scendere i loro stipendi al minimo. 
Brand e rivenditori hanno, ancora una volta, agito in barba alle vite di coloro sulla cui carne hanno costruito la propria ricchezza (È sempre bene ricordarsi che i nostri abiti vengono prodotti per la maggior parte nei paesi poveri, dove i diritti dei lavoratori sono inesistenti).
Quando la pandemia ha iniziato a dilagare in Europa e in America, molti marchi come Primark, Adidas, ASOS, Vero Moda, Mango, H&M, Inditex (Zara), Nike, VF Corp. (Vans, Timberland, The North face), C&A hanno di colpo cancellato gli ordini effettuati nei mesi prima della pandemia. Parliamo anche di casi in cui la merce era già stata consegnata o prodotta. Il motivo è chiaro: il virus ne avrebbe impedito la vendita e avrebbe creato delle perdite economiche per l’azienda.
Tutto ciò senza considerare la scia di fame e povertà che avrebbero lasciato alle spalle. Perché – se chi sta leggendo può non conoscere la situazione finanziaria precaria in cui versano tutti gli operatori della catena di approvvigionamento della moda – la realtà è ben conosciuta dai CEO delle grosse multinazionali che non si sono fatti scrupoli a lasciare le fabbriche senza liquidità. 
Per i produttori ora è impossibile pagare i materiali (che vengono generalmente acquistati quando i marchi effettuano gli ordini) ed è impossibile pagare il lavoro dei dipendenti, perché generalmente i marchi pagano a consegna avvenuta.
Questo sistema fa emergere in maniera chiara i limiti della global supply chain: i marchi hanno sia il potere di controllo sul prezzo che di cancellazione dell’ordine anche quando, dall’altra parte, i fornitori hanno già acquistato i materiali e spesso pagato i lavoratori. Di Responsabilità Sociale d’Impresa non si parla, in questa zona del mondo. E infatti, come in Birmania, una delle categorie ad essere licenziate per prima è stata quella dei lavoratori sindacalizzati. 
I proprietari dei laboratori di confezionamento sono quindi stati costretti a chiudere i battenti e a spedire a casa milioni di lavoratrici – che costituiscono la maggioranza – e lavoratori . Quando parliamo di produzione di capi d’abbigliamento, dopo la Cina, è il Bangladesh il maggior esportatore al mondo. 4.1 milioni di bengalesi sono impiegati in fabbriche di questo tipo. L'industria dell'abbigliamento del Bangladesh rappresenta l'80% delle esportazioni del paese, facendo dipendere la sua economia e il sostentamento della sua popolazione dagli ordini di abbigliamento provenienti dagli Stati Uniti e dall'Europa. Agli inizi di aprile è stato stanziato un fondo governativo da 540 milioni di euro affinché le industrie votate all’esportazione pagassero i lavoratori, ma si pensa che la somma sia bastata solo a sfamare gli operai, e solo per poche settimane. Per le industrie non bastano: hanno sulle spalle i debiti contratti per l’acquisto di tessuti e materie prime, le bollette, l’affitto degli uffici, le tasse fondiarie, in molti casi devono rimborsare i prestiti contratti con banche o fornitori.
Dopo una denuncia pubblica e varie campagne a sostegno dei lavoratori, tra marzo e aprile alcuni brand hanno deciso di pagare per la merce già prodotta o in produzione, mentre altri hanno rifiutato o stanno negoziando una riduzione dei pagamenti. Per terminare gli ordini in sospeso, secondo le associazioni dei produttori di abbigliamento, circa la metà delle 4.000 fabbriche di abbigliamento del Bangladesh sono state riaperte. “Molte di queste stanno lottando per imporre il distanziamento sociale e le buone pratiche igieniche in ambienti spesso ristretti”, hanno detto a Reuters due funzionari sindacali. "La maggior parte delle fabbriche non rispettano le linee guida sulla sicurezza", ha affermato Babul Akter, presidente della Federazione dei Lavoratori industriali dell’abbigliamento Bangladesh, aggiungendo che dozzine di addetti all'abbigliamento erano stati infettati dal virus. “Il semplice posizionamento di sistemi di lavaggio delle mani e il controllo delle temperature agli ingressi non aiuta. All'interno delle fabbriche, quando i lavoratori lavorano così da vicino, come manterranno le distanze sicure? " 
L’ONG Clean Clothes Campaign ci informa attraverso i suoi canali di ciò che succede quotidianamente: 1258 fabbriche di abbigliamento in Bangladesh devono ancora pagare i bonus #Eid a lavoratori e lavoratrici, che hanno trascorso gli ultimi giorni del Ramadan protestando per ottenere stipendi e indennità. 170 addetti all'abbigliamento di 77 fabbriche diverse in Bangladesh sono risultati positivi al COVID-19. In Cambogia, 237 fabbriche hanno sospeso le attività e 110.000 operai hanno perso il lavoro. In India, quando è scattato il lockdown, i lavoratori migranti delle fabbriche d’abbigliamento sono rimasti reclusi in città, perché le linee ferroviarie sono state bloccate e nessuno si è preoccupato di fornirgli assistenza. La Corte Suprema, dopo settimane, ha dichiarato che gli verrà fornita assistenza almeno per il cibo. In Myanmar, 5017 lavoratori e lavoratrici tessili in tutto il Paese riceveranno i sussidi di emergenza dal Fondo europeo Myan Ku (è improbabile che questi riprenderanno il loro lavoro in Tailandia a crisi finita). Lavoratori e lavoratrici in Pakistan sono stati picchiati da polizia e guardie della fabbrica durante una protesta per i salari non pagati e i licenziamenti forzati. Più della metà dei quasi 3 milioni di lavoratori immigrati registrati in Thailandia non ha accesso ai meccanismi di protezioni statali.
Lo shock avrà ripercussioni sui prossimi mesi a venire, il che significa che molte delle giovani donne non avrà più un lavoro dopo la crisi. Molte industrie non riapriranno perché gli indebitamenti effettuati sono troppo alti. Ciò porta a scegliere tra il ritorno alle famiglie in campagna, dove ci sono poche opportunità di lavoro, o la vita in città, nella speranza che le fabbriche possano riaprire a pieno regime. Il 70% dei lavoratori ha già fatto ritorno ai villaggi, secondo Tuomo Poutiainen dell’International Labour Organization. 
Vi invitiamo a seguire le novità dalla pagina di Campagna Abiti Puliti.

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