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Fabio D'Angelo

Ingegnere

Cofondatore del sito letterario Una Banda di cefali

Mio caro amico Diego

Cabrini e noi

Cabrini, travolto dalle critiche, alla fine si è scusato. Ci sta, anche perché quello che ha francamente infastidito non era neppure tanto quello che ha detto, quanto piuttosto quella voglia, quella smania, che ha spinto un po’ tutti ad esprimere un parere, una frase velenosa, un giudizio morale. Quello che è certo è che nella frase di Cabrini - “Maradona sarebbe ancora qui con noi se fosse venuto alla Juve, perché l’ambiente lo avrebbe salvato. Non la società, ma proprio l’ambiente” - c’è un fondo di verità. Ovviamente, non sul fatto di essere ancora vivo, quello nessuno lo può dire, neanche un fanatico della sfera di cristallo, un mago, un astrologo. Quello che invece risulta certo è che, a Torino, Maradona avrebbe avuto una vita più facile e riparata. Avrebbe potuto fare le sue cose con maggior tranquillità: giocare al calcio protetto dagli arbitri e farla franca la sera, coperto dalla più grande ed importante rete di relazioni italiane, fatta di potentati vari, lobby, professionisti, uomini di potere che tirano i fili, oltre che da tutto quello stuolo di commentatori e opinionisti che lavorano per i giornali di famiglia. Tutti pronti a suonare gran cassa qualora ce ne fosse stato bisogno, contribuendo così a creando uno storytellyng totalmente diverso.

È il pregiudizio, bellezza, è tu non puoi farci niente.

Chi mi conosce lo sa, il piangersi addosso è una delle cosa che detesto di più. Per cui non farò vittimismo, ma una cosa va ammessa: essere napoletano è una faccenda molto complicata. Il punto è che un napoletano, a differenza di un cittadino qualunque nato a Roma, Bologna, Torino, Milano, Venezia, Lecce o Varese, porta su di sé una responsabilità che altri non hanno. E questo è un fatto difficilmente contestabile. Basta vedere quello che succede quotidianamente: un errore eclatante, un crimine o un gesto che può turbare la moralità collettiva, non ha lo stesso effetto nell’opinione pubblica e attenzione sui giornali se a commetterlo è un napoletano o un cittadino italiano qualunque. La differenza è tutta qua: un cittadino qualunque sa che per ogni gesto quotidiano che compie, rischia di risponderne personalmente o, nei casi più gravi, di far ricadere il peso della colpa anche sulla famiglia e gli amici. Un napoletano no, perché per ogni cosa che fa, il rischio di generare un processo alla città è sempre dietro l’angolo. Da lì alla colpevolizzazione dell’intera comunità distribuita tra i cinque continenti è un attimo. Questa responsabilità finisce con il legare i napoletani con la comunità nera americana, con gli indios, gli ispanici, gli immigrati di qualunque provenienza, i Palestinesi, i Baschi in Spagna e con tutte le minoranze che costituiscono quel vasto Sud del mondo che quotidianamente, come sorge il sole, si svegliano e sanno che dovranno correre più del pregiudizio e del razzismo o verranno linciati e travolti.

Un nero non può guidare una macchina di lusso. Un Imprenditore Napoletano, con un patrimonio solido e buoni agganci nel mondo che conta, non può acquistare Maradona.  

Un pregiudizio con cui convivere, che in molti spiegano con l’esempio del nero americano che guida una macchina lussuosa, cosciente del rischio di essere fermato e freddato sul posto dalla Polizia per il solo sospetto di averla rubata. E che consente a un giornalista di fama, di dire che un napoletano non può mettersi in fila all’Apple Store perché “cavolo, siete poveri e poi comprate un telefonino di 1200 euro?”. Senza pensare che quella foto magari è stata scattata a via Scarlatti, in un quartiere di media alta borghesia, in cui il reddito medio delle persone probabilmente è superiore di gran lunga a quello del giornalista toscano, reo dell’ennesimo sputo o macchia – ditelo come meglio preferite - sulla città. Questa cosa Maradona la capì subito, il giorno stesso dell’arrivo a Napoli, quando durante la sua presentazione ufficiale, alcuni giornalisti misero in dubbio la capacità di un imprenditore con un patrimonio solido, buoni agganci nel mondo della politica dell’epoca – sfido chiunque a dire che Pomicino e tutta la DC napoletana degli anni Ottanta non contasse qualcosa in Italia - e la gloriosa banca cittadina alle spalle - ovviamente prima che fosse fatta fallire, per poi essere regalata per poche lire a un grande gruppo bancario del Nord - non potesse acquistare Maradona se non con i soldi della camorra. Nonostante questo pregiudizio costante che si sublimava di domenica nei cori e negli striscioni d’odio che accoglievano la squadra in tutti gli stadi del Nord, Diego scelse ugualmente di essere napoletano. Per questo gli vorrò sempre bene.

Diciamo grazie D10s, però mo’ basta con i Messia

D’altronde Napoli, agli inizi degli anni 80, viveva uno dei periodi peggiori della sua storia: usciva dal terremoto e si leccava ancora le ferite dell’epidemia di colera. A rendere tutto più scuro, c’era inoltre la faida sanguinosa tra NCO e Nuova famiglia, che ha lasciato a terra un numero di morti impressionanti e che favoriva il paragone con i teatri di guerra mediorientali. Per cui non vi stupite se il 1984 fu per i napoletani il vero anno dello sbarco del primo uomo sulla Luna, dell’arrivo del Messia, del supereroe venuto da Marte per aiutarci a togliere, come si dice da queste parti, i paccheri dalla faccia. Eh sì, siamo stati felici. Ma Diego, D10s, fece di più. Ci indicò la strada, ci disse che era possibile invertire una tendenza storicizzata, ci fece vedere come col talento, la rabbia e il concetto di cazzimma, sdoganato in quegli anni da Pino Daniele in 
A me me piace 'o blues, si potesse accorciare e annullare quel gap che ci separava dal resto del Paese. Si potevano battere i potentati, zittire i razzisti e ristabilire un minimo di giustizia. Noi l’abbiamo venerato, omaggiato, trasformato in icona; ne abbiamo nascosto i difetti facendo finta di non vedere alcune storture, ignorando le cattive frequentazioni. L’abbiamo, infine, reso religione e simbolo sacro, ma purtroppo non l’abbiamo seguito. Dopo di lui, infatti, gli stessi errori. La città, salvo il breve periodo del rinascimento napoletano, è rimasta sostanzialmente ferma, immobile, incapace di esprimere una borghesia all’altezza della sfida, una visione del futuro, un’idea nuova di città e soprattutto una classe dirigente all’altezza. Siamo ripiombati nella stessa mediocrità di sempre. E a simboleggiare il tutto, ricordo che il D10s, quando arrivò, fu accolto da ottantamila persone. Ma alla fine ricordo anche che se ne andò via da solo compiendo così la perfetta parabola della napoletanità e, più in generale, dell’essere meridionali di qualcuno. Rigettati dalla propria città e spinti a forza dalla mancanza di opportunità e di futuro su treni eredi di quelli che un tempo, con una dose massiccia di macabra ironia, venivano chiamati treni del sole. Un capitale umano che se ne va e difficilmente recupereremo. Un danno irreparabile. Lo dice il Rapporto Svimez 2019, che fotografa e certifica per il sud un presente di merda e un futuro che definire nerissimo può essere un eufemismo. La causa è lo spopolamento: sono emigrati dal Meridione verso il Nord due milioni di persone in quindici anni, di cui 132mila persone circa nel solo 2017. 

Cabrón, l’eroe di te stesso devi essere tu.

D10s è morto e dopo tre giorni non è risorto e noi siamo rimasti qui a piangerlo e a leccarci le ferite, mentre guardiamo inermi una nuova stagione di una serie molto di successo nel primo dopoguerra e poi negli anni sessanta/settanta/ottanta. Quella che ha come protagonista noi che partiamo e come sfondo un vecchissimo modello economico, quello del Paese la cui economia viaggia a due velocità. A questo punto, magari con un po’ di sconforto, qualcuno potrebbe domandarmi “beh, che fare? Hai soluzioni per uscire da questa merda?”.
In verità non ho risposte certe, ma per non farmi trovare impreparato ne ho elaborate diverse, sperando che qualcuna possa fare al caso vostro. 
Risposte:
- Gettarsi in un facile e auto assolutorio vittimismo. 
- Invocare il ritorno dei Borboni. 
- Prendere in prestito le parole di Mark Renton in Trainspotting, quando dice la sua su cosa significa essere Scozzesi nel Regno Unito, declinandole ovviamente in modo che facciano pan dam con la nostra condizione. 

- Far finta che il Messia non sia mai arrivato e quindi aspettare l’arrivo del vero Messia. 
- Ascoltare veramente i consigli di D10s, tipo quando nel 1991, in Argentina, durante un suo fermo per possesso di cocaina, a uno dei poliziotti che gli aveva detto “eri l’eroe di mio figlio”, risponde lapidario: “Cabrón, l’eroe di tuo figlio devi essere tu”. Come a dire, basta miti, basta Messia. Se senti l’ingiustizia, devi ribellarti. Se non lo fai, sei complice del torto che stai subendo. Per cui, cabrón, se vuoi veramente cambiare le cose, devi diventare l’eroe di te stesso.



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