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Yasmin Tailak

Studentessa italo palestinese

Morire di caldo in un campo italiano

Si chiamava Camara Fantamadi, veniva dal Mali, e aveva la mia età.
E' stato trovato morto dopo una giornata di fatica nei campi pugliesi.
Camara Fantamadi era arrivato in Puglia da pochi giorni per svolgere i lavori di raccolta e di coltivazione della terra che tengono impegnati ogni anno poco meno di centocinquantamila persone non italiane. Da Salerno, dove risiedeva, si era messo in viaggio per sei euro all'ora. Gli era andata quasi bene, considerando che la retribuzione oraria media di un bracciante straniero è nettamente inferiore. E allora si era alzato dal letto, ed era mezzogiorno, e sui campi di Tuturano, frazione di Brindisi, un caldo tremendo ha cotto le braccia e la schiena di Camara, il sole ha picchiato sulla sua testa a quasi 40 gradi, ma lui non si è fermato, non poteva fermarsi. Io ricordo molto bene cosa ho fatto quel giorno: sono stata a casa col ventilatore puntato tutto il tempo alla mia scrivania, mentre scrivevo la tesi di laurea magistrale. Un normale pomeriggio di torrida estate per una normale ventisettenne europea.
Camara invece per quattro ore bollenti, le più calde della giornata, ha fatto su e giù per la terra, per guadagnarsi venti euro, ha chiesto dell'acqua, magari si sarà domandato se era proprio quello che voleva fare nella vita, se era proprio quello che sperava di incontrare, il famoso futuro migliore, i sogni nel cassetto che alla nostra età iniziano a perdere colore, forse si sarà detto no, non ce la faccio, e magari avrà pensato che quei soldi gli sarebbero stati utili in un paese che non ti da nulla, e quindi doveva farcela per forza.
Alla fine dell'estenuante giornata, verso le quattro del pomeriggio, mentre io chiudevo il computer e mi stendevo al fresco della mia stanza, Camara, sfinito, si metteva in sella alla sua bicicletta per tornare, per morire. Il suo cuore non ha retto l'ultimo sforzo fisico, e ha smesso di battere, lasciando il suo corpo giovane e affaticato come involucro morto sul ciglio della strada.

A volte è necessario guardare la propria vita come dall'esterno e metterla a confronto con vite totalmente diverse dalla nostra per riuscire a provare la giusta dose di rabbia nei confronti di un sistema sociale ed economico profondamente impari. Le vite degli altri le guardiamo sempre dall'esterno e notizie come quelle della morte di Camara Fantamadi, come anche quella della bracciante Paola Clemente, corrono il rischio di non lasciarci atterriti come dovremmo.
Diamo per scontata la distruzione di un essere umano per fatica, e non la vediamo più, non la tocchiamo più, non ci riguarda da vicino, perchè ciascuno di noi, nelle nostre esistenze fatte di cose diverse, di parole diverse e di bisogni che soddisfiamo in maniera semplice, senza sforzo eccessivo, senza rischiare la pelle, è al sicuro.

Siamo al sicuro da un destino che per pura casualità non ci ha messo al mondo neri, poveri, nomadi, e vulnerabili. Un destino cieco e privo di razionalità e logica, privo di merito, che rende alcuni individui più prossimi alla morte di altri. Ma questo fato, questi dadi che vengono lanciati nel momento in cui veniamo al mondo in qualche parte di questo pianeta sfortunato, non è privo di responsabilità. La schiavitù è qualcosa di ancora vivo e pulsante, che si nasconde nelle trame invisibili delle strutture economiche dei paesi occidentali. Ogni tanto un filo ribelle spunta da sotto il tappeto, crepa di caldo e lavoro e apre un piccolo squarcio dal quale possiamo guardare tutta la bruttezza e l'ingiustizia di questo mondo.
Su ogni testa c'è un prezzo. Ogni essere umano è capitalizzabile a seconda di diversi fattori: qualifiche, capitale umano, colore della pelle, prestigio familiare, occupazione, ambizioni e pretese.
Su ciascuno di noi c'è una taglia, e sui braccianti la taglia è modesta, e sui braccianti neri la taglia è ridicola. Sono esseri umani senza prezzo, sacrificabili per il comparto agroalimentare che dalle mani dei lavoratori mette sugli scaffali dei supermercati i prodotti che essi raccolgono, sfruttati e sottopagati, e che qualcun'altro, nel proprio destino sicuro, acquista senza neanche porsi il problema della sete, del sudore, dell'acqua potabile non disponibile, degli infarti sotto il sole.

Anche le logiche della famigerata accoglienza sono dettate da puro interesse economico. Le politiche migratorie europee non sono che l'altra faccia della medaglia del razzismo e del sovranismo di destra, il quale non è altro che una sola delle tante sfumature di devianza del capitalismo contemporaneo. Le parole che circondano l'esistenza dei migranti sono parole o di pietà – di paternalistica pietà – di aiuto, soccorso, intervento umanitario, che riducono il migrante a un soggetto non-soggetto, privo di azione e vuoto contenitore dell'agire occidentale, o di odio – fascistissimo odio – di respingimento, contenimento, rimpatrio, che riducono il migrante a un soggetto sgradito e ai margini, ancora una volta vuoto contenitore del giudizio occidentale.
Sono specchietti per le allodole: fungono esattamente per deviare l'attenzione di ciascuno di noi da un fatto estremamente concreto (i migranti accolti servono all'economia) a un principio morale (li lasciamo vivere o li lasciamo morire?).

Nel mezzo della cecità il capitalismo continua a uccidere, preferibilmente i soggetti neri. Il caporalato resta intatto, ché nessuno potrebbe credere che la misura presa in questi giorni dal sindaco di Brindisi di vietare il lavoro agricolo nelle ore più calde della giornata sia una misura di serio contrasto allo sfruttamento fisico dei braccianti, e la morte dell'ennesimo africano nei campi resterà un puntino già sbiadito in partenza, di cui si è parlato troppo poco e di cui ci dimenticheremo presto.
Ma Camara aveva la mia età, ed è morto di infarto sotto il sole.

La foto di copertina fa parte è di Fabio Cuttica. Lraccolta dei pomodori a Borgo Segezia, Foggia, 2004. 
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