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Serana Mottola

Dottoranda di ricerca in Linguistica all’Università “Parthenope” di Napoli.

Nella parola c’è il primo gradino della violenza di genere.

La scorsa settimana ho partecipato ad un interessante seminario on-line sul potere delle parole e sull’importanza del linguaggio inclusivo. La relatrice, bravissima, ha tracciato un excursus che partiva da Aristotele, passava per Jean Jacques Rousseau e John Locke e arrivava fino ai giorni nostri. Il filo conduttore era uno solo: parole, azioni e leggi volte a relegare le donne a cittadine di seconda categoria, che si trattasse della Francia illuminista o dell’Italia dei movimenti per il diritto di voto delle donne. 

Quando si parla di violenza di genere il termine “violenza” evoca spesso immagini mentali forti e sanguinolente, a causa dell’utilizzo della forza fisica. Ma la violenza di genere è costituita da un ventaglio di sfaccettature che precedono l’episodio di violenza fisica e gli fanno da apripista. È violenza di genere, per esempio, rivolgersi ad una donna che cammina per strada con epiteti denigranti o sessualizzanti e commenti volgari assolutamente non richiesti (il cosiddetto catcalling). È violenza di genere palpeggiare una donna in un locale o sui mezzi pubblici, suscitando l’ilarità dei presenti. È violenza di genere chiedere ad una donna, durante un colloquio di lavoro, se intende avere figli. È violenza di genere titolare un articolo di giornale su una scienziata omettendone il nome e la professione e riferendosi a lei genericamente come “donna”, riducendo la sua attività al suo sesso biologico. È violenza di genere quando si vuole sindacare sulla gravidanza di una donna e decidere cosa dovrebbe fare del suo utero e del suo corpo. 
In questi casi (e in tanti altri) si tratta di violenza di genere e come tale va considerata perché tutti questi episodi, nel caso ci fosse ancora bisogno di spiegarlo (spoiler: ce n’è ancora bisogno), non riguardano mai allo stesso modo gli uomini. Non si palpeggiano gli uomini in discoteca, non si bussa col clacson insistentemente agli uomini per strada, non si chiede agli uomini ai colloqui di lavoro se intendono procreare, non si scrive un articolo di giornale su un professionista o uno scienziato dando priorità alle attività sportive che pratica o a quanti figli ha, piuttosto che all’attività che lo ha reso degno di nota. 

Seppur con notevoli passi avanti rispetto al darwinismo, usato da molti intellettuali dell’epoca (e di oggi) come supposta confutazione scientifica della naturale inferiorità della donna rispetto all’uomo, le donne, le loro capacità e soprattutto il loro corpo continuano ad essere oggetto di quotidiano dibattito sui mezzi di informazione, nei contesti tanto professionali quanto familiari. Quello che la donna indossa o non indossa sembra legittimare i comportamenti più aberranti e le congetture più fantasiose su cosa faccia una donna nel suo tempo libero, o, più frequentemente, su come sia arrivata ad occupare quella posizione. Nessuno si attarda ad analizzare la lunghezza dei pantaloni di politici o personaggi pubblici uomini, perché questo, naturalmente, non ha nulla a che fare con la loro (in)competenza e con la professione che svolgono, quale che essa sia. Quando la donna corrisponde ai canoni di bellezza tradizionali, e risulta quindi piacente ai più, la sua professionalità verrà messa in secondo piano, a scapito del suo corpo e del suo abbigliamento: sarà pure brava e competente, ma è innanzitutto e soprattutto attraente e, quindi, oggetto di distrazione per la debole attenzione maschile. Lo stesso accadrà se la donna, invece, non è considerata dalla maggioranza come particolarmente bella: anche in questo caso, con commenti infelici e inappropriati, ci si concentrerà più sull'aspetto della persona femminile che non sui contenuti che esprime o le mansioni che svolge. Quel “lei è più bella che intelligente” rivolto da Silvio Berlusconi a Rosy Bindi ce lo ricordiamo tutte (e tutti, spero), e non perché ci ha fatto ridere. Il berlusconismo in Italia, in ottima compagnia all'estero, ha sdoganato la peggiore retorica sulle donne e ha reso la loro sessualizzazione un banale atteggiamento goliardico, qualcosa di cui sorridere ammiccando. Quando Matteo Salvini durante un comizio della Lega ha portato sul palco una bambola gonfiabile, in rappresentanza di Laura Boldrini, l’opinione pubblica ha sminuito l’episodio e ne ha riso; quando Carola Rackete è stata al centro del dibattito europeo per la sua attività di soccorso dei migranti in mare, i giornali italiani di destra si sono concentrati sul fatto che non indossasse il reggiseno, scandalizzandosi più per questo che non per le persone morte annegate sotto i nostri occhi; ogni volta che Vittorio Feltri o gente di quel (basso) livello vomita le proprie esternazioni sessiste e misogine su giornaliste, politiche o conduttrici tv, banalizziamo e ci facciamo satira. 

Tutto questo è violenza di genere ed è appena qualche gradino sotto le molestie fisiche, gli stupri e i femminicidi. 

La limitazione dei diritti delle donne, come sta accadendo oggi in Polonia o in Cile per il negato diritto all’aborto, ma anche in Italia con l’altissimo numero di medici obiettori di coscienza (non all’epoca di Rousseau, ma oggi, nel 2020), è una forma di potere esercitata da una classe dirigente composta prevalentemente da uomini per decidere sulla vita delle donne: da qui a stabilire di poter disporre anche del loro corpo a proprio piacimento, il passo non è poi così lungo.

Quest’anno, fino ad ora, i femminicidi in Italia sono stati 60 e in più del 70% dei casi sono avvenuti nel contesto familiare. Ma questa è solo la tragica punta di un iceberg che rappresenta un problema trasversale, strutturale e sistemico che riguarda tutti e tutte. È innanzitutto una questione culturale, che comincia dai giocattoli che compriamo ai bambini e alle bambine (giochi creativi, colorati e manuali per lui; ferri da stiro giocattolo, fatine rosa e storie di donne che aspettano un uomo valoroso che le salvi per lei: perché?), si manifesta nella lingua che usiamo ogni giorno (“la presidente” è grammaticalmente corretto e se vi disturba tanto sentirlo o leggerlo è un vostro problema) e arriva fino ai luoghi di lavoro nella forma di divario salariale uomo-donna (il cosiddetto gender gap: in media, gli uomini guadagnano circa 3000 euro in più rispetto alle colleghe donne). Naturalmente, chi ha maggiore visibilità e autorità può e deve fare anche di più, poiché le sue parole hanno una maggiore eco: ad esempio, ai giornalisti e alle giornaliste che descrivono come “gigante buono” o “vulcano di idee che purtroppo è stato spento” uomini che hanno ammazzato o stuprato delle donne andrebbe strappato il tesserino dell’assopito Ordine dei Giornalisti e dovrebbero essere obbligati e obbligate a letture e studi intensivi sul peso delle parole nella costruzione di un’immagine e sull'importanza di una comunicazione corretta, sullo stile del trattamento riservato ad Alex in Arancia Meccanica, finché non si rendono conto di quanto è offensivo e pericoloso ciò che scrivono.

Tanto è stato fatto grazie a chi si è battuto contro tutto questo prima di noi, tanto ancora c'è ancora da fare, ma soprattutto c'è qualcosa che ogni persona può fare: utilizzare un linguaggio inclusivo, richiamare chi si rivolge al dottore come tale e alla dottoressa affianco come “signorina”, riportare ai superiori casi di discriminazioni o molestie subite sul lavoro da colleghe donne, far notare agli uomini che si vantano di “aiutare in casa”, riferendosi alle faccende domestiche e/o all'accudimento dei figli, che non stanno certo compiendo un atto encomiabile pulendo la propria casa o cambiando il pannolino ai loro stessi figli (nota: a livello globale, le donne svolgono circa il 76% del lavoro domestico), e molto altro.

Che possa essere tutti i giorni 25 novembre e che queste riflessioni possano accompagnarci nella nostra quotidianità, nelle scuole, nelle istituzioni e nei luoghi di lavoro, fino ad arrivare ad una uguaglianza che sia veramente tale e ad una parità di diritti che non sia subordinata alla gentile concessione maschile.
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