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Giulia Viola Pacilli

Attivista, Attrice

Drammaturga 

Insegnante di teatro

Non una di più.

“In Italia una donna su tre subisce violenza fisica nel corso della propria vita.”
In questo momento sto facendo lezione in una quarta elementare: le bambine di fronte a me sono dodici. Statisticamente quattro di loro subiranno violenza, prima o poi. A chi toccherà? Forse a Nina, così
innocente. O a Greta, tanto esuberante. Magari a Sara: è talmente bella. Impossibile dirlo, perché in questi casi non importa il ceto sociale a cui appartieni, non importa il paese di provenienza, non importa il
quartiere in cui vivi, lo sport che pratichi, i libri che leggi o non leggi, non importa come ti vesti o cosa ti piace bere, la taglia di reggiseno o quella dei jeans.
Una donna subisce violenza perché è una donna.
E alla società in cui viviamo, va bene così.
Perché una società che affronta la possibile presenza di uno stupratore per treno, per via, per locale dicendoti “Fatti accompagnare”, o “Metti qualcosa di meno provocante”, è una società che ha accettato lo stupro come parte delle proprie dinamiche sociali.
Vi sembro esagerata?
E allora andiamoci a rileggere l’articolo 609-bis del nostro codice penale. Scopriremo che il “reato di stupro” in Italia è unicamente connesso a segni di violenza, al riscontro di minacce o di inganno, e
all’abuso di autorità. Scopriremo che il nostro codice penale, nonostante la Convenzione di Istanbul ratificata nel 2013, si rifiuta ancora di riconoscere che stupro è “ogni rapporto sessuale senza consenso”.
Stiamo assistendo a uno sterminio di genere, e non esiste società, nazione o governo che abbia intenzione di attivare misure di emergenza a riguardo.
E allora spetta a noi.
Spetta a noi informarci sull’argomento, leggerne, discuterne; spetta a noi parlarne con gli amici e i fidanzati; spetta a noi scendere in piazza, spetta a noi supportarci, spetta a noi farci sentire; spetta a noi fare rumore, insieme. A costo di essere additate come “femministe rompicazzo”, come “lesbiche estremiste”, o “troione da battaglia”.
Dobbiamo farlo, per noi stesse.
E per Nina, Greta e Sara.
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