“In Italia una donna su tre subisce violenza fisica nel corso della propria vita.”
In questo momento sto facendo lezione in una quarta elementare: le bambine di fronte a me sono dodici. Statisticamente quattro di loro subiranno violenza, prima o poi. A chi toccherà? Forse a Nina, così
innocente. O a Greta, tanto esuberante. Magari a Sara: è talmente bella. Impossibile dirlo, perché in questi casi non importa il ceto sociale a cui appartieni, non importa il paese di provenienza, non importa il
quartiere in cui vivi, lo sport che pratichi, i libri che leggi o non leggi, non importa come ti vesti o cosa ti piace bere, la taglia di reggiseno o quella dei jeans.
Una donna subisce violenza perché è una donna.
E alla società in cui viviamo, va bene così.
Perché una società che affronta la possibile presenza di uno stupratore per treno, per via, per locale dicendoti “Fatti accompagnare”, o “Metti qualcosa di meno provocante”, è una società che ha accettato lo stupro come parte delle proprie dinamiche sociali.
Vi sembro esagerata?
E allora andiamoci a rileggere l’articolo 609-bis del nostro codice penale. Scopriremo che il “reato di stupro” in Italia è unicamente connesso a segni di violenza, al riscontro di minacce o di inganno, e
all’abuso di autorità. Scopriremo che il nostro codice penale, nonostante la Convenzione di Istanbul ratificata nel 2013, si rifiuta ancora di riconoscere che stupro è “ogni rapporto sessuale senza consenso”.
Stiamo assistendo a uno sterminio di genere, e non esiste società, nazione o governo che abbia intenzione di attivare misure di emergenza a riguardo.
E allora spetta a noi.
Spetta a noi informarci sull’argomento, leggerne, discuterne; spetta a noi parlarne con gli amici e i fidanzati; spetta a noi scendere in piazza, spetta a noi supportarci, spetta a noi farci sentire; spetta a noi fare rumore, insieme. A costo di essere additate come “femministe rompicazzo”, come “lesbiche estremiste”, o “troione da battaglia”.
Dobbiamo farlo, per noi stesse.
E per Nina, Greta e Sara.