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Chiara Tortorelli

Scrittrice, editor e 

copywriter

Parole, parole, parole.

Parole, parole, parole, cantava Mina negli anni Settanta.
Le parole sono importanti diceva Nanni Moretti. 
E noi abbiamo dimenticato il potere della parola.

Una parola, una sola parola ha un potere enorme: di risollevarti o di gettarti in pasto ai lupi, di regalare una speranza o di distruggere ogni via d’uscita, di intessere odio o di perpetrare amore.
“Impeccabilità della parola” raccomandavano gli antichi sciamani toltechi, ma l’uso della parola richiede una maestria: prima di pronunciarla bisogna soppesarla, valutarla, misurarne lo spessore, prefigurarsi quali azioni e reazioni potrà provocare e poi prendersene la responsabilità totale, accettarne le conseguenze.
La parola autentica è intenzione che si fa atto, nasce dal silenzio, scaturisce dal suo valore. 
Nel frastuono, nell’inquieto e ininterrotto blablabla delle nostre vite abbiamo sostituito alla responsabilità della parola la cultura dello strascino, abbiamo costruito un universo di parole inconsapevoli, che vengono lanciate nel vuoto, tipo boomerang, spogliate del loro spessore e ridotte a emblema cheap.
Così sono naufragate le parole della politica, dell’attualità, dell’informazione e della cultura, che vuote di senso hanno intessuto il paradigma della Vivisezione, della Frammentazione, della Separazione e dell’Aberrazione.
La parola è diventata noiosa e vanitosa, nozionistica e letterale e come nella parabola biblica della caduta della Torre di Babele siamo precipitati nella Confusione.
La parola un tempo non era disgiunta dal gesto, incarnava l’essenza e si faceva prassi cioè azione responsabile.
Oggi assistiamo all’idolatria della parola che si compiace, che venera se stessa inseguendo il facile like e cercando consenso.
Il paradosso è che noi crediamo di usare la parola. Invece siamo abilmente usati dal suo potere inconsapevole e finiamo col creare una realtà dolorosa di cui diventiamo vittime ignare.
Guardiamo cosa accade ad esempio quando parliamo di salute.
Nell'uso comune delle problematiche legate al benessere/malessere usiamo spesso un linguaggio bellico.
Chi è ammalato è “un guerriero che combatte”, quella che viviamo “è una guerra”, “siamo in trincea”, “la malattia non è stata ancora sconfitta”, “ci prepariamo alla battaglia senza esclusione di colpi” e i medici sono “gli eroi che combattono in prima linea”.
Persino il corpo che nella malattia diventa ignoto e sconosciuto assume i tratti controversi dello “straniero” contro cui alzare dighe e barriere, il diverso incomprensibile da cui tutelarsi, il nemico da fronteggiare.
Avere nemici monopolizza attenzione, inscena drammi di facile effetto, formule semplicistiche e dicotomiche che azzerano il contributo della complessità e che ricreano la dimensione della lotta agonistica, del tifo calcistico, lo stesso che si fronteggia sui social a colpi di “mi piace” e polemiche.
Approdiamo così nel mondo orwelliano della dittatura della parola da palcoscenico, quella che appare e non è, quella sganciata da ogni azione reale, che detta il facile slogan al megafono e che muta come cambiano gli umori popolari.
Su questa base quale spazio può avere il confronto e il dialogo, l’intesa costruttiva e non distruttiva, autentico fondamento di ogni azione realmente democratica?
Mi chiedo se non sia arrivato il momento di abbandonare il mondo Kafkiano delle impossibilità semantiche per provare a costruire un universo di nuove parole. Parole su misura e nuovi idiomi per ricostruire il senso. 
Abbiamo bisogno di mettere spazio e bellezza nei nostri discorsi, abbiamo bisogno di parole unitarie, del discorso che cura e avvicina, non della parola che uccide.
Vocaboli impeccabili e responsabili, veri e autentici che ci rispecchino.
E se non troviamo le parole giuste, meglio il Silenzio.
Per fare spazio, zittire l’insulso e contraddittorio blablabla e il rumore.
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