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Yasmin Tailak


Studentessa italo palestinese 

Signor Architetto, Signora Architetta.

Ciclicamente ritorna sulla bocca degli italiani il dibattito linguistico sulle forme femminili dei sostantivi usati tradizionalmente solo al maschile. Nella lunga serie di resistenze sociali confluiscono ragioni culturali, ideologiche e politiche che puntualmente escludono dal ragionamento l'unica cosa veramente centrale su cui riflettere: la lingua. Quando si inizia a parlare di mestieri al femminile si solleva sempre, a gran voce, l'ostilità di molte persone, maschi e femmine, convinte che questo sia uno stravolgimento troppo grosso, cacofonico, stridente e 'politicamente corretto', un cambiamento insopportabile.

Ragazzi e ragazze, mi preme sottolinearvi che non c'è nessun cambiamento in atto. Quando decliniamo al femminile i termini di potere, di giudizio, di mestiere e di attività non ci stiamo solo adeguando alla modernità, ma stiamo usando la lingua in maniera corretta, la stiamo usando per ciò che esiste, e cioè descrivere il mondo.

Nella formazione della lingua esistono le ragioni grammaticali ed esistono le ragioni sociolinguistiche. Le prime servono a fornire le strutture astratte che vengono calate sul linguaggio per ordinare le parole in una norma. Le ragioni grammaticali sono quelle che apprendono i bambini appena imparano a parlare, ad esempio, e sono le ragioni dell'ipercorrettismo di chi ha appena appreso una lingua, e la parla solo ed esclusivamente attraverso ciò che insegna la norma, la regola, l'astrazione.

Le ragioni sociolinguistiche sono quelle che ci spiegano le resistenze sociali di cui sopra. In queste ragioni la grammatica astratta viene piegata a senso unico per continuare ad aderire a scelte concrete e storiche, ma ormai totalmente obsolete. L'esclusione dalla lingua italiana del femminile di alcuni mestieri non ha ragioni grammaticali. Le sue radici affondano in una storia che ha, fino ad oggi, guardato ai sindaci, agli assessori, ai capi, ai presidenti, ai ministri, agli ingegneri, ai giudici solo come maschi, inevitabilmente uomini.

Il tempo è cambiato. Oggi sempre più donne ricoprono incarichi che fino a cento anni fa erano impossibili da raggiungere, ed è necessario che una lingua flessiva come l'italiano venga sfruttata al massimo della sua capacità linguistica, tenendo da parte valutazioni che il più delle volte sono solo il naturale frutto di una storia di invisibilizzazione del lavoro femminile, un frutto che marcirà, che sta già marcendo.

La Treccani definisce flessiva 'la lingua in cui derivazione e flessione avvengono per mutamento di tema o di radice, o per addizione e fusione al tema di suffissi, che di solito danno più indicazioni'. Significa che si possono derivare, formare parole nuove attraverso un cambiamento nel tema o nella radice, e che si possono specificare le caratteristiche dell'oggetto di cui stiamo parlando attraverso i suffissi. L'italiano è una lingua che ha preso talmente tanto a cuore la precisione delle caratteristiche dell'oggetto linguistico da essere flessiva in tutto: si specifica il genere e il numero di ogni singola cosa, reale, irreale, umana, non umana, vivente, non vivente, concreta o astratta. La chiarezza della definizione è fondamentale, e questo è un grande merito di una lingua, la nostra, che ha deciso di non sacrificare troppo la funzionalità e l'accuratezza sull'altare dell'economia e della semplificazione.

In italiano ci sono diversi modi di definire il maschile e il femminile singolari. La desinenza più classica del maschile è -o/e, in parole come in maestr-o, signor-e, e quella più classica del femminile è -a, come in maestr-a, signor-a. La struttura grammaticale italiana è abbastanza chiara in questo: in quasi tutti i termini che finiscono in -o, si avrà per il femminile un suffisso in -a. Esistono pochi sostantivi maschili in -o/e che al femminile terminano in -essa, come dottore/dottoressa, soldato/soldatessa; limitati sostantivi che al maschile terminano in -tore e al femminile avranno desinenza finale in -trice, come direttore/direttrice, ristoratore/ristoratrice ed esistono, infine, sostantivi che terminano sempre e solo con la desinenza tipica femminile, come sosi-a, astronaut-a, person-a, anestesist-a, invariabili, validi per descrivere sia un soggetto maschile che un soggetto femminile.

Nella ricchezza lessicale che abbiamo a disposizione, e l'italiano è universalmente riconosciuto come una lingua molto abbondante in questo senso, possiamo e dobbiamo usare le forme corrette delle parole, per comunicare in maniera precisa, efficiente e giusta. Non è solo una questione di riconoscimento del femminile linguistico, già di per sè invisibilizzato nelle forme collettive, ma si tratta anche di rendere grazia a una lingua che ha già in sè tutte le soluzioni del caso.

La questione della cacofonia è una questione che con la grammatica non ha nulla a che fare, riguarda solo il modo in cui socialmente siamo stati abituati da secoli a percepire un determinato ruolo, un certo mestiere. Non è chiaramente un caso se 'ci suonano' benissimo parole come filatrice, tessitrice, infermiera, domestica, bambinaia, maestra, ma 'stridono' ai più parole come presidentessa, arbitra, architetta, ingegnera, sindaca, ministra, assessora. Ma qui non c'è cambiamento linguistico, c'è solo l'uso normale delle desinenze suffisali canoniche dell'italiano per descrivere i lavori femminili. A partire dalla norma grammaticale è consentito l'uso di quelle forme che alla nostra consuetudine risultano ancora nuove e strane, perché risulta nuova e strana la posizione della lavoratrice moderna, non più limitata all'attività assistenziale, domestica, di raccolta e di cucito, ma proiettata verso funzioni 'nuove' che erano prima dedicate solo e unicamente ai maschi, e di cui si parlava solo al maschile.

D'altronde la prima signora sindaca italiana, Ninetta Bartoli, è stata eletta solo nel 1946. La prima signora ingegnera italiana, Emma Strada, ha sfondato la barriera segregativa dell'università di ingegneria solo nel 1908. La prima signora architetta italiana, Elena Luzzatto, è stata pioniera alla sua facoltà solo nel 1925. La prima signora ministra italiana, Tina Anselmi, ha raggiunto il titolo solo nel 1976. La prima signora magistrata italiana, Letizia De Martino, è diventata la prima a ricoprire un incarico di giustizia solo nel 1964. La prima signora arbitra ad arbitrare la finale maschile di Supercoppa Uefa, prestigiosissima competizione sportiva, Stephanie Frappart, lo ha potuto fare solo quest'anno, nel 2020.

Sono processi che risalgono quasi tutti a meno di un secolo fa. Pochi, decisamente troppo pochi, per abituare la mentalità collettiva a quello che è in atto sotto i nostri occhi. Il cambiamento è sicuramente sociale, culturale, e deve riflettersi nella nostra lingua, che è naturalmente predisposta a questi mutamenti. Mettersi a tozzo con una realtà linguistica che esiste e che esisterà fortunatamente sempre di più significa rifiutare di parlare e di descrivere la naturale evoluzione del femminile nel mondo. Chiamare i ruoli di queste donne con i termini maschili non è solo un atto di ottusità, di svalutazione e di inaccuratezza, ma è anche linguisticamente scorretto. E poi, insomma, se nessuno si è mai lamentato di quanto fosse brutto, cacofonico e difficile il termine gastroenterologo...

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