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Mattia Corvino

Laureato in Giurisprudenza, attualmente corsista per la preparazione del concorso in magistratura. 

Tutela dei diritti fondamentali e covid-19.

Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo si fonda sull’articolo 103, comma 1, della Costituzione nonché sull’articolo 7 del c.p.a., secondo cui il riparto di giurisdizione è regolato dalla distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi. L’analisi delle differenze che intercorrono tra diritti soggettivi e interessi legittimi, posizioni soggettive che trovano un riconoscimento costituzionale nelle disposizioni dedicate alla tutela della giurisdizione, ha impegnato dottrina e giurisprudenza per lungo tempo. Il risultato finale delle elaborazioni susseguitesi negli anni porta a identificare l’interesse legittimo come la posizione giuridica di quel soggetto che mira ad ottenere un bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico. Mentre il diritto soggettivo si identifica con la sfera entro cui è sovrana la volontà del titolare, così che l’ordinamento riconosce un potere alle sue decisioni, la soddisfazione di un interesse legittimo, che mira all’ottenimento di un bene vita interessato dall’esercizio del pubblico potere, dipende dalla condizione che esso coincida con l’interesse pubblico affidato dalla legge al potere dell’autorità amministrativa. 
Mentre la soddisfazione di un diritto soggettivo è incondizionata, la pretesa del bene vita da cui discende l’interesse legittimo, che dipende dall’eventuale coincidenza con l’interesse pubblico alla cui cura è preposto il potere amministrativo, può essere sacrificato per le stesse ragioni di interesse pubblico. 
Pur essendo posizioni giuridiche nettamente distinte, nella prassi può risultare difficile in certi casi distinguere le due posizioni con conseguente difficoltà nell’individuare il giudice munito di giurisdizione. Dottrina e giurisprudenza hanno ovviato al problema attraverso l’utilizzo di criteri distintivi. 
Un primo criterio tende a distinguere interessi legittimi e diritti soggettivi sulla base della distinzione tra atti iure imperii, dove l’amministrazione esercita poteri pubblicistici a cui corrispondono posizioni di interesse legittimo, e atti iure gestionis, dove invece l’amministrazione non esprime alcun potere amministrativo a anzi agisce in posizione paritetica al privato. Un ulteriore criterio si fonda sulla distinzione relativa a norme di relazione e norme d’azione: mentre le seconde attribuiscono un potere all’amministrazione volto alla cura dell’interesse pubblico, attraverso cui è possibile adottare provvedimenti che, incidendo sulla sfera del destinatario, fanno sorgere in capo a questo una posizione di interesse legittimo, le prime non attribuiscono alcun potere all’amministrazione. L’effetto giuridico infatti è già prodotto dalla norma così che l’atto dell’amministrazione, piuttosto che avere effetti costitutivi, si limita a riconoscere il prodursi dell’effetto giuridico già realizzatosi. Ciò accade ad esempio in relazione ai beni demaniali individuati tramite i criteri stabiliti dal codice civile all’articolo 822: l’effetto giuridico che individua un bene come demaniale è già prodotto dalla norma così che l’atto dell’amministrazione ha un effetto meramente ricognitivo.
Un terzo criterio diffuso in dottrina si fonda sulla differenza tra potere vincolato e potere discrezionale: mentre la posizione giuridica del privato, di fronte ad un potere discrezionale, si qualifica come interesse legittimo, di fronte ad un potere dell’amministrazione vincolato il soggetto vanta una posizione di diritto soggettivo. Un ulteriore criterio ricavabile dalla giurisprudenza della Cassazione si fonda invece sulla distinzione intercorrente tra carenza di potere in astratto e carenza di potere in concreto. 
Vi è la presenza di una carenza di potere in astratto quando il potere è stato esercitato o in assenza della norma attributiva del potere, o in enorme deviazione dalla stessa: l’atto che deriva da quel potere, essendo inidoneo a incidere sulla sfera giuridica del destinatario, è un atto nullo a cui corrisponde un diritto soggettivo in capo al destinatario. 
Vi è invece la presenza di una carenza di potere in concreto quando il potere è esercitato sulla base di una norma attributiva, ma tale potere viene esercitato in un modo contrastante rispetto alla norma che lo attribuisce. La carenza in concreto si manifesta nei tradizionali vizi dell’incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge, che comportano l’annullabilità del provvedimento. Di conseguenza, la posizione soggettiva vantata dal soggetto destinatario di quel provvedimento non può che avere la consistenza di interesse legittimo. 
Riguardo a questo ultimo criterio è da segnalare la presenza di un contrasto giurisprudenziale tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione. La Suprema Corte ha individuato nella carenza in concreto di potere la nullità del provvedimento dell’amministrazione quando la norma che attribuisce il potere all’amministrazione, pur esistendo, viene distorta dal provvedimento amministrativo che utilizza un potere non rispondente alle condizioni previste dalla legge attributiva. Si aggiunge quindi la categoria del cattivo esercizio del potere, che comprende la violazione delle condizioni di esercizio del potere e che darebbe vita, secondo la ricostruzione della Cassazione, ad un diritto soggettivo e non ad un interesse legittimo. Tuttavia tale tesi è da rifiutare alla luce dell’articolo 21 septies della legge n. 241/1990 che, tipizzando i casi di nullità, individua il “difetto assoluto di attribuzione” come causa di nullità dell’atto: dall’interpretazione dell’articolo discende che la mancanza assoluta di attribuzione del potere dà vita ad un atto nullo. Nei casi in cui la norma esiste ma viene utilizzata concretamente in un modo scorretto, la patologia applicabile è quella della annullabilità con conseguente configurabilità della posizione del soggetto destinatario come di interesse legittimo. 
Le ragioni sottostanti a tale ricostruzione operata dalla giurisprudenza della Cassazione risiedono nel tentativo di sottrarre alla giurisdizione del giudice amministrativo la tutela di diritti fondamentali lesi dal cattivo uso del potere pubblico che degradano a interessi legittimi. Infatti, poiché la dicotomia carenza di potere in astratto – carenza di potere in concreto avrebbe potuto potenzialmente devolvere al giudice amministrativo la tutela di diritti soggettivi, compresi quelli di rango costituzionale, colpiti dall’esercizio di poteri amministrativi, la Corte di Cassazione ha elaborato la teoria dei diritti indegradabili al fine di ricondurre al giudice ordinario la tutela dei diritti fondamentali.
La teoria dei diritti indegradabili si pone in linea di continuità con la dottrina dell’affievolimento, secondo cui l’interesse legittimo nasce da una degradazione del diritto soggettivo che avviene a seguito di un provvedimento amministrativo dotato di potere attribuitogli da una norma per la cura dell’interesse pubblico. Secondo la dottrina dei diritti indegradabili, i diritti fondamentali di rango Costituzionale, in conseguenza dell’esercizio del potere amministrativo, non sono suscettibili di affievolimento in interessi legittimi proprio in forza del loro carattere costituzionale. 
Si distinguono, quindi, situazioni soggettive capaci di essere degradate da un potere amministrativo idoneo a trasformare diritti in interessi legittimi o, al contrario, ad elevare a diritti gli interessi legittimi, e situazioni soggettive “a nucleo rigido” che, in ragione della loro rilevanza costituzionale, non possono essere compressi dal provvedimento amministrativo mancando qualsivoglia potere per incidere sugli stessi. Secondo la teoria dei diritti indegradabili, quando il provvedimento incide su un diritto coperto costituzionalmente la controversia che nasce dalla lesione è sempre devoluta al giudice ordinario. La teoria dei diritti indegradabili è da ritenersi superata per diversi motivi. In primo luogo, la tutela dell’interesse legittimo presso il giudice amministrativo ha acquisito lo stesso grado di “pienezza” ed “effettività” della tutela dei diritti soggettivi presso il giudice ordinario. 
Infatti, la ragione che ha spinto la Cassazione all’elaborazione di tale dottrina risiede nella diversa entità di tutela sussistente, all’epoca dell’elaborazione della teoria, tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo: prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, la tutela dinnanzi al giudice amministrativo era inizialmente concepita come una tutela di legittimità sull’atto, volta alla rimozione dell’atto amministrativo illegittimo. Questa impostazione, attraverso l’influenza del diritto dell’Unione Europea e alcune sentenze della Corte di Cassazione – in particolare la 500/1999 sulla tutela risarcitoria per la lesione di interessi legittimi presso il giudice amministrativo – che hanno allargato l’ambito della giurisdizione esclusiva, è da ritenersi superata, potendosi affermare la “pienezza” di tutela presso il giudice amministrativo. Infatti, con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, la tutela dell’interesse legittimo ha lo stesso grado di “effettività” della tutela dei diritti soggettivi presso il giudice ordinario: anche nel processo amministrativo sono esperibili le azioni di condanna, di esatto adempimento, di nullità, idonee a soddisfare la pretesa della parte. In secondo luogo, la teoria dei diritti indegradabili mal si concilia con la Costituzione: se si dovesse dare seguito a tale teoria allora si dovrebbe ritenere come “paralizzabile” l’attività della pubblica amministrazione quando questa incida su diritti fondamentali, circostanza da escludersi alla luce dei principi costituzionali di solidarietà sociale e buon andamento. In terzo luogo, anche i diritti fondamentali, come gli interessi legittimi, sono soggetti al bilanciamento con altri diritti fondamentali e con la cura dell’interesse pubblico affidato all’amministrazione. 
È ciò che è successo nell’emergenza sanitaria dovuta al COVID-19, in cui si è reso necessario un bilanciamento che ha portato alla compressione di diritti fondamentali, quali la libertà di circolazione ex articolo 16 Cost., in ragione di una tutela maggiore del diritto alla salute ex articolo 32 Cost., messa in pericolo dall’epidemia mondiale.
L’emergenza sanitaria ha infatti reso necessario l’utilizzo, da parte della pubblica amministrazione, delle ordinanze così dette extra ordinem: ordinanze che, adottate sul presupposto della necessità e urgenza, hanno la peculiarità di poter derogare alla legge. Le ordinanze extra ordinem si pongono in contrasto con il principio di legalità sostanziale: pur essendo previste dalla legge e quindi conformi al principio di legalità formale, le norme che attribuiscono alle amministrazioni tali poteri effettuano una delega in bianco che si limita ad individuare il presupposto e il soggetto autorizzato ad emanarle ma non il contenuto dell’atto. Non essendo predeterminato il contenuto dalla legge, allora si deve ritenere che le ordinanze extra ordinem costituiscono una deroga al principio di legalità sostanziale che si giustifica alla luce della situazione di necessità e urgenza (necessitat non habet legem). 
È discussa la natura giuridica delle ordinanze extra ordinem. Una parte della dottrina le qualifica come atti normativi, sottolineando il contenuto generale e astratto che le caratterizza. Tuttavia è da preferire la tesi che attribuisce alle ordinanze extra ordinem natura amministrativa, sottolineando la loro caratteristica di poter derogare alla legge. Inoltre, le ordinanze extra ordinem difettano del requisito della innovatività che consente di individuare un atto come normativo: essendo limitate nel tempo e quindi destinate a situazioni temporanee, non sono idonee ad innovare l’ordinamento giuridico.
La deroga al principio di legalità sostanziale, giustificata dalla non prevedibilità in concreto del contenuto delle ordinanze a causa dell’imprevedibilità della necessità e urgenza, viene compensata dall’ordinamento attraverso diversi limiti: le ordinanze extra ordinem, oltre ad essere limitate nel tempo, devono essere, in primo luogo, corroborate da un’adeguata motivazione. In secondo luogo, l’assenza di un parametro di legittimità per misurare il contenuto dell’ordinanza extra ordinem, viene compensata dall’ordinamento dal principio di proporzionalità, attraverso cui è possibile pesare il sacrificio richiesto ai soggetti rispetto alla necessità: attraverso la proporzionalità è possibile valutare l’idoneità delle ordinanze extra ordinem a far fronte alla necessità pubblica alla luce del minor sacrificio possibile. La proporzionalità compensa l’indebolimento del principio di legalità sostanziale legittimando l’adozione di tali ordinanze. 
In tal modo si giustifica la devoluzione delle ordinanze extra ordinem alla giurisdizione del giudice amministrativo, nonostante comprimano diritti fondamentali di rango Costituzionale.
Infine, la tutela delle ordinanze extra ordinem è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo: nonostante siano in gioco diritti fondamentali, tali posizioni assumono la veste di interessi legittimi. La devoluzione al giudice amministrativo della tutela delle ordinanze extra ordinem segnala il tramonto della teoria dei diritti inderogabili: alla luce dell’evoluzione del processo amministrativo, il giudice amministrativo è munito di potere giurisdizionale anche se vengono in gioco diritti di rango costituzionali che assumono, di fronte al potere amministrativo, consistenza di interesse legittimo posto alla base del riparto di giurisdizione. 
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