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Enrica Leone

DOcente e scrittrice

Tutto chiede salvezza. L'urlo di Daniele Mencarelli

Se dovessimo stabilire la bellezza e l’intensità di un romanzo esclusivamente dal titolo, questo di Daniele Mencarelli Tutto chiede salvezza avrebbe pochi rivali. Ma il titolo è solo l’inizio di un viaggio che sonda gli abissi di cui è capace l’animo umano col supporto di una società fragile, che guarda al male con interesse morboso o letale indifferenza.
Roma, Giugno 1994. In un’Italia tutta concentrata sui Mondiali di calcio (certe abitudini sono dure a morire) Daniele a soli vent’anni viene sottoposto a TSO, trattamento sanitario obbligatorio, ovvero internamento in reparto psichiatrico specializzato, per il tempo di una settimana.
L’autore e protagonista ci consegna il racconto autentico e spesso crudele di una settimana da pazzi, letteralmente, indagando senza sconti la sua vicenda umana e insieme le falle di uno Stato che i matti li vuole solo tenere buoni, lontani dagli sguardi dei sedicenti normali, con buona pace di Basaglia. Era il 1978 quando veniva varata la legge 180 in materia di Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, legge che venne poi assorbita nella 833, ovvero l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Il testo, meglio noto come legge Basaglia, era un atto d’accusa ben documentato contro il trattamento esclusivamente coercitivo della malattia mentale, una stroncatura radicale della logica manicomiale, che venne ratificata dal Parlamento e fece dell’Italia un Paese all’avanguardia in materia di diritti civili. Oggi, leggendo storie come quella di Daniele, viene da pensare che anche la legge 180 è ridotta all’ennesima grida di manzoniana memoria.

A seguito di una crisi più violenta di altre, durante la quale distrugge casa e mette in serio pericolo la vita del padre, Daniele viene internato. In ospedale è costretto a convivere con un’umanità che sente estranea e che scopre essere invece la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato. Nel raccontare la propria vicenda umana, il protagonista non si sottrae allo scandaglio impietoso della sua coscienza, restituendoci l’immagine di un uomo sopraffatto dal suo sentire. La mia malattia si chiama salvezza dice, narrando il dolore dell’impotenza di fronte alle ingiustizie e alle miserie altrui. Quale compito devo svolgere per non sentire più il dolore degli altri? Si chiede questo ragazzo di vent’anni la cui unica colpa sembra essere quella che il Leopardi della Ginestra indicava come sola possibilità di salvezza per il genere umano, ovvero riconoscersi parte d di una vita comune che nonostante tutto resiste e porta bellezza. Proprio la poesia a un certo punto interviene a dare respiro, sollievo nei giorni della reclusione, con l’occasione di mettere su carta pensieri che dentro pesano troppo e fanno male. Io credo che gli artisti abbiano in comune coi matti una cosa: nessuno può dirgli che cosa guardare e come guardarlo, chiamala libertà se vuoi. Allo stesso modo niente e nessuno può lenire il loro dolore, così dice Mario, il saggio della strana compagnia, mentre passa le sue giornate a osservare un uccellino e a provare a prendersene cura. E poi ci sono Gianluca, Alessandro, Madonnina, Giorgio e gli inservienti, gli infermieri, i primari, le droghe, legali e non. C’è un mondo che è un concentrato di devastazione, ignoranza, assuefazione, indifferenza. C'è il fallimento di uno Stato che non riuscendo a curare il dolore, tenta di rimuoverlo o anestetizzarlo. C’è l’angoscia di un ragazzo che sente dentro di sé la scintilla originaria di quella bellezza che si chiama infinito e l’incapacità di accettare il tempo che passa, di sentirlo posticcio rispetto a quello che nel mio (suo, nostro?) cuore vuole vivere per sempre.
C’è l’urlo di un’umanità che tutta chiede salvezza. C’è il silenzio di chi questa salvezza la nega da sempre.

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