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Maria Marchese


Una via dritta 

Arrivano all’improvviso. Tutti insieme, dei molossi neri senza faccia, prima lenti e poi, davanti ai corpi barricati sulle scale della scuola, sempre più decisi. Le visiere sono abbassate e i manganelli alti, gli anfibi neri pestano ginocchia che si ritirano per il dolore, calciano mani che crocchiano di un rumore sordo, finché non cala il manganello su chi ha ancora il sangue freddo per non spostarsi, o, semplicemente, non riesce più a muoversi.
È la fine di tutto, è l’inizio.
Se ne accorge perfino Irene, che ha buttato i resti della colazione nel bidone di fronte alla scuola, un secondo prima dell’irruzione della Policía Nacional in quel seggio improvvisato per il referendum indipendentista.
Mentre assiste all’assalto, si accascia contro lo stipite di un negozio chiuso, in un angolo della piazza, e intanto chiama al cellulare. Pau non risponde. L’italiana sbatte la schiena contro la saracinesca, non vede più niente e non è per la pioggia, che ormai le inzuppa i capelli e la felpa.
Marco la trova così, accartocciata sul marciapiede che lui, prima dell’assalto, percorreva in fretta per arri-vare al magazzino del bar in cui lavora. 
«Irene!»
La trascina via prima ancora di essere riconosciuto; ma lei si divincola, chiede solo dov’è Pau, dov’è Pau.
«Forse l’ha visto Tati, oggi faceva l’osservatrice» le soffia nell’orecchio mentre l’accompagna al riparo, dietro un angolo più nascosto della piazza trasformata in seggio. Intorno a loro corrono agenti, accorrono famiglie. 
E Tati non risponde.
Irene si accascia sul suolo bagnato per la seconda volta.
Tutto il suo mondo, adesso, è grigio come la pioggia di quell’angolo di strada, che sa di umido e bidoni troppo pieni.
Ci mette un po’, quindi, a notare la macchia fluorescente che si fa strada nella bolgia degli assediati: il gilet degli osservatori dei diritti umani ondeggia tra la folla che cerca di proteggere l’ingresso ormai sfondato. Ma è addosso a una ragazza troppo alta, per essere la loro amica.
Il caschetto biondo di Tati è a pochi metri di distanza, nel cordone che gli assediati hanno formato per impedire l’accesso ai rinforzi. 
«Non ha detto che come osservatrice dei diritti umani non poteva intervenire?» sussurra Marco a Irene, che si è piegata su se stessa come una bambola di pezza.
«Si vede che non ha resistito» risponde l’altra, con voce debole. 
Anche Tati vuole mettersi tra i manganelli e il seggio, come gli altri appena accorsi. 
E come gli altri sparisce subito, cancellata dai caschi neri, ingoiata dalla massa di bandiere catalane e maglie di tutti i tipi che sembrano ondeggiare nel corpo a corpo dell’assedio.
Riemerge un istante dopo con una donna che sanguina dalla testa. Marco e Irene si sbracciano verso le due figure in avvicinamento.
La donna ha i capelli bianchi, macchiati di rosso. Si regge a stento sulle gambe: è il braccio della ragazza a sostenerla come un peso morto.
«Nonna!» grida Marco, prima ancora di accorgersi di aver aperto bocca.
«Che cazzo dici?» Irene piange, cerca di mettere insieme il respiro necessario a muoversi, ad avanzare ver-so le due donne abbarbicate come piante rampicanti attorno a un palo.
Marco non risponde, corre verso l’anziana ferita.
La sostiene tra le braccia che s’inzuppano di pioggia. Esita un momento, la tasta bene come a controllare che non sia sua nonna, che sia stato un miraggio dovuto alla concitazione e alla foschia. Ma l’abbraccia lo stesso, col pudore dei ragazzi ormai adulti verso le parenti vecchie. Si porta alla spalla la mano nodosa della donna e fa per muoversi, per controllare se si regge bene e se può camminare.
«C’è un’ambulanza sul Parallel, portala lì!» grida Tati, mentre butta un occhio sulla folla che ruggisce alle sue spalle. Arrivano ancora rinforzi dal vicinato: la polizia, forse, non riuscirà a requisire le urne.
«Tati, dov’è Pau?» grida Irene, accorsa anche lei.
«All’Institut del Teatre, l’ho visto lì stamattina, alle sette: da quelle parti mancavano scrutatori e hanno chiesto aiuto ai seggi vicini». Tati abbassa gli occhi, disgustata dal sollievo dell’amica. Che le importa degli altri, se il suo fidanzato sta bene. Irene se ne accorge, cancella via il sorriso e le intima in tono caporalesco: «Adesso vieni con me a casa: sarai sconvolta».
Ma l’altra la guarda con commiserazione, e torna indietro. Non si chiede più niente, neanche dov’è Virginia. Ovunque si trovi la sua ragazza, si dice, l’unico modo per difenderla è aiutare quelli lì, nella speranza che qualcuno faccia altrettanto negli altri seggi attaccati dagli agenti “mandati da Rajoy”. Lo sapevano tutti, che sarebbero arrivati.
Marco si allontana con la donna ferita sotto la pioggerella che, per fortuna, va scemando. Pepita, si chiama, così ha detto con la voce confusa e un po’ infantile di chi è in preda al dolore. I ceci che doveva prendere per preparare l’hummus aspettassero pure in magazzino, decide lui. Tanto sono scaduti. 
Irene resta sola sul limitare della piazza, ai margini dell’assedio. Tra poco riprenderà il telefono, per provare a raggiungere Pau. Ma non ci riuscirà, le viene da pensare. Non riuscirà mai a raggiungerlo davvero. 
Prima d’immergersi nella schermata del WhatsApp, si ritrova addosso un’ultima volta gli occhi di Marco e Tati.
Uno sguardo solo per tutti e tre.
Poi ritornano ciascuno alle sue cose, alle sue scelte in quella giornata che li unisce e separa allo stesso tempo.
Pepita ride nervosa sotto il sangue che le cola sul viso, sussurra a Marco che è la prima volta che vede degli italiani fare qualcosa di buono, al di là degli espaguetis a la boloñesa.
Ma lo dice in catalano e a bassa voce: Marco non capisce e le risponde, non sa più in che lingua, che andrà tutto bene, che l’ambulanza è vicina, che manca poco.
Pepita annuisce e ripete: manca poco.
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